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R Recensione

4,5/10

Behold... The Arctopus

Horrorscension

Completa rimozione di barriere strutturali ed indicative. Mirano a presentarsi bene, i Behold… The Arctopus del Warr guitar hero Colin Marston, ma razzolano poi malissimo, nei fatti, da sempre. “Horroscension”, comeback del trio che interrompe, un po’ a sorpresa, un silenzio produttivo di cinque anni (alcuni dei progetti paralleli più interessanti di Marston, come i Dysrhythmia o gli Infidel? Castro!, hanno evidentemente richiesto il loro esoso tributo fisico ed intellettuale) contiene le sue propaggini entro la mezz’ora, ma potrebbe durare anche dieci minuti, o settanta: la non consequenzialità di una musica che fa del tecnicismo esacerbato un’arma d’offesa, e della sua frammentazione una tecnica d’assalto, la fa di fatto apparire un oggetto algido, atemporale quando non a-spaziale, irrimediabilmente statico e farraginoso, nonostante uno strapotere ritmico indiscusso ed una logorrea strumentale che non conosce fine.  

Il fumettoso Tarkus post-nucleare della copertina si blocca lì, impagliato, tra l’estetica sci-fi del nuovo brutal death intelligente (Ulcerate, Gigan) ed il delirio cerebrale del grind più estremo, ma comunque “istituzionalizzato” (Pig Destroyer, Agoraphobic Nosebleed). Di senso della posizione e progressiva tessitura di scheletri comunicanti non v’è comunque traccia in “Horrorscension”, con il deleterio e primario effetto collaterale di una noiosa, turbinante cascata di dissonanze sparate, a gittata continua, su tempi disintegrati in velocità e scansione. Difficile dire quando inizia un brano e quando finisce l’altro, tale è il livellamento del blob amorfo che si agita, preso a schiaffi da più direzioni, nella più grande padella metallica unta di aromi vagamente jazz. Tra “Disintegore” e il piattissimo songwriting di “Monolithic Destractions” non ci si capisce sostanzialmente nulla, ed alla lista si aggiungerebbe anche la frenesia di “Horrorsentience”, non fosse per il ribaltamento degli umori della seconda metà, depurata delle scorie solipsistiche e congelata in un avanzare irreale. “Putrefucktion” è un inutile inciso something-grind dove mulinano pale di elicottero al posto della doppia cassa, laddove invece “Deluge Of Sores” è l’unica scintilla a giocarsi la carta di una spigliata articolazione math-core (cambi di tempo e riffaggio a pioggia, ma almeno qualcosa rimane piantato nel cervello) e i dieci minuti e mezzo della finale “Annihilvore” rinunciano in parte ad irreali rapidità d’esecuzione, per ricoprirsi di brume black ed acide, alienanti iterazioni cacofoniche.

Non si tratta nemmeno di una spicciola questione di odi et amo: i Behold… The Arctopus sono scadenti, oltre il mero giudizio personale. Abilità strumentistica prestata al vuoto pneumatico.

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