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R Recensione

6,5/10

Dysrhythmia

The Veil Of Control

Non amo, né ho mai amato il tech-death degli anni ’90. Riconosco l’importanza storica di gruppi come Cynic, Atheist e Pestilence, il loro incalcolabile impatto su una non-scena che vedeva allora aprirsi un orizzonte sconfinato di linguaggi e contaminazioni, ma ho sempre trovato le loro produzioni gelide, senz’anima e, particolare non da poco, terribilmente datate nei suoni – questa frecciata è rivolta, in particolare, a “Focus”. Se penso poi alla quantità di gruppi cui hanno fornito (involontariamente?) sponda nei decenni successivi e che hanno intrapreso una folle corsa all’estremizzazione del medium espressivo – come gli Spastic Ink e gli amati-odiati Spiral Architect di “A Sceptic’s Universe”, i maestri indiscussi del virtuosismo e dell’incomunicabilità – mi è chiaro che, per quanto mi riguarda, di maledizione e non di retaggio si tratta. Per tutti questi motivi, è eticamente impossibile non provare una profonda deferenza all’ascolto di un nuovo disco dei Dysrhythmia che – pur nascendo coi medesimi presupposti e muovendosi negli stessi territori – sono stati in grado di creare un loro personalissimo stile: una fusion metallica del tutto metamorfica e portata al punto di non ritorno, prog metal esasperato e dotato di una sensibilità intellettuale lontana dall’esibizionismo. Musica per cervelli che comunicano su di un livello superiore.

The Veil Of Control”, secondo disco della band per Profound Lore (ma settimo in totale), giunge a quattro anni di distanza da “Test Of Submission”. Si tratta di un lungo periodo di tempo che, tuttavia, ha visto severamente impegnate le due menti principali della band in una serie di progetti paralleli da noi colpevolmente trascurati. Il chitarrista Kevin Hufnagel, molto attivo anche come solista (l’ultima cassetta in edizione limitata, “Backwards Through The Maze”, è di qualche mese fa), ha inciso due dischi con il supergruppo Vaura (“Selenelion” del 2012, “The Missing” dell’anno successivo), due con i Sabbath Assembly (“Quaternity” del 2014 e il s/t dell’anno successivo) e altri due con i riformati Gorguts (“Colored Sands” del 2013, l’EP “Pleiades’ Dust” di quest’anno): il bassista Colin Marston ha rimesso in piedi i Behold… The Arctopus (con il pessimo “Horrorscension” del 2012 e il recentissimo “Cognitive Emancipation”), partecipato al già citato “Colored Sands” dei Gorguts e a “A Northern Meadow” dei Pyramids (2015), licenziato altri quattro lavori solisti a nome Indricothere fra il 2013 e il 2015 e, infine, inciso tre full lenghts coi Krallice di Mick Barr, già Orthrelm (“Years Past Matter” del 2012, “Ygg Huur” del 2015, il “Prelapsarian” di prossimo arrivo e anticipato dall’EP “Hyperion”).

Il mal di testa da accumulo di nomi sconosciuti ai più – per essere morto, il metal si mantiene in forma… – è nulla rispetto alle emicranie lancinanti che accompagnano i trentacinque, densissimi minuti di “The Veil Of Control”, dalla furiosa sventagliata di blast che apre la title track all’impossibile abbarbicarsi delle cellule melodiche di “When Whens End” (ad ogni secondo, una nuova canzone). La più vistosa discontinuità col passato – e, nello specifico, col prodigioso “Barriers And Passengers” del 2006, il loro apice creativo – si manifesta sotto forma di un’educata incredulità di fronte ai funambolismi del trio che, a tratti, sembra non sapere più cosa inventarsi per stupire l’ascoltatore. L’organizzazione della menzionata “When Whens End” è naturalmente jazzistica – basti far caso al frenetico sovrapporsi di temi che, senza potersi rendere quasi conto, segmentano in più riprese il brano –, ma lo sviluppo è assolutamente caotico, inafferrabile ed imprevedibile. Quando il gioco di muscoli si placa e la Stratocaster di Hufnagel, un mostro che erutta a getto continuo claudicanti riff distorti e sofisticatissime melodie aliene, si staglia in tutta la sua autorità, sovrastando le distonie siderurgiche della Warr guitar di Marston, allora il pezzo sembra veramente decollare: ma è troppo tardi, ne sono già trascorsi due terzi.

Il resto del disco fa tesoro di questa lezione, cercando di non sovradosare gli ingredienti a disposizione. Di “Internal/Eternal” – dopo un elaborato warming matematico sorretto dal tapping di Marston – è particolarmente preziosa la seconda metà, nella quale cresce e si alimenta un costrutto armonico elettro-acustico la cui complessità è pari solo alla sua delicatezza. I contrasti si fanno sentire in tutto il loro peso: così l’affronto di pieno petto di “Selective Abstraction” allinea, al solito reticolato di arpeggi, dei pachidermici, selenici rallentamenti sludge, mentre la trasognata “Black Memory” sbanda dapprima su legati heavy old school, finendo poi bocconi, mitragliata da caricaturali, velocissime sequenze tech. In questo mare magnum – forse troppo vasto – di spunti sempre nuovi, il singolo (?) “Severed And Whole” è il passaggio più convenzionale e legato al passato della band ma, al contempo, il più sentito ed emotivo: Hufnagel riesce a tenere testa allo strapotere ritmico dei suoi compagni, tirando fuori dal cilindro una linea melodica spiraliforme, simil-rāga, come l’avrebbe però suonata il Johnny Greenwood di “Ok Computer”.

The Veil Of Control”, a dispetto della sua ridotta durata, è forse il disco più impegnativo dell’intera carriera dei Dysrhythmia, le colonne d’Ercole oltre cui si estende l’ignoto o, chissà, il nulla. Se “Psychic Maps” certificava l’avvenuta metallizzazione del trio e “Test Of Submission” provava a giocare la carta della variazione su tema, questo full length scarica i propri factotum allo spiacevole crocevia che porta alla standardizzazione da un lato, alla totale perdita d’equilibrio e buon gusto dall’altro. Interessante sarà capire come si muoverà la band.

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