Fear Factory
Demanufacture
Durante il corso degli anni ’90 l’heavy metal ha compiuto trasformazioni notevoli : con la caduta dei grandi gruppi del calibro di Metallica, Iron Maiden, Slayer (con l’eccezione del bellissimo “Seasons In The Abyss” del 1990) e l’esplosione del movimento grunge e crossover, il genere cambia pelle, si apre a nuove influenze e stili musicali e diventa più maturo e introspettivo a livello di testi, perdendo quindi quel senso di “epico” e “maligno” che lo caratterizzava nella decade ottantiana: niente più tematiche sataniche alla Venom e Slayer, niente più scenari fantastici e fatati alla Helloween e viene perduto anche l’atteggiamento “sex, beer & heavy metal” che caratterizzava bands come i Judas Priest. Ora prendono posto temi improntati su vicende personali, sull’angoscia interiore (Korn, Deftones), il dolore e la rabbia vengono trattati in maniera più filosofica e “umana” (Neurosis, Tool), oltre agli immancabili testi improntati nel sociale (Sepultura, Meshuggah e gli stessi Fear Factory giusto per citare tre nomi). Tra l’altro è proprio da qui che partono le critiche al genere, mosse dalla fetta di pubblico più conservatrice, quella rimasta fedele al metal delle origini.
Ed è proprio in questo periodo di radicali cambiamenti che nel giugno del 1995 esce uno degli album più importanti del decennio scorso: “Demanufacture” dei Fear Factory.
Il gruppo californiano aveva già scosso la scena estrema nel 1992 con il violento “Soul Of A New Machine”, che già mostrava le qualità e le caratteristiche peculiari della band anche se non in maniera del tutto nitida: infatti ad alcuni ottimi pezzi, entrati nel repertorio dei classici della band, si alternavano altri meno riusciti ed ispirati. Con “Demanufacture”, invece, la band giunge a piena maturazione, ispessendo le strutture, allungando la durata media dei brani e potenziando ulteriormente un suono già di per sé parecchio cattivo. Il loro thrash-core di matrice industriale era per l’epoca di un impatto disarmante, ed è riuscito ad influenzare un’intera generazione di bands (tra cui citerei i Mnemic e gli Strapping Young Lad, che pubblicheranno due anni più tardi il capolavoro “City”) senza perdere un briciolo del proprio smalto, smagliante tutt’ora dopo 12 anni.
I primi due brani in scaletta, la title-track e “Self Bias Resistor”, sono delle vere e proprie dichiarazioni d’intenti: atmosfera futuristica e cupa, ritmica serrata, di una precisione millimetrica, riffs torrenziali, freddi e disumani, accompagnati dal cantato di Burton C. Bell: un growl potente, cattivo ed aggressivo, che raramente lascia il posto a parti pulite, seppur sempre ben inserite in un contesto violento. Facile quindi capire che, almeno nella primissima parte del disco, di melodie orecchiabili e soavi non ne vedrete manco l’ombra.
Il lato più visionario del gruppo emerge in canzoni come la terza traccia, “Zero Signal”, che con i suoi velocissimi passaggi di tastiera e le sue aperture atmosferiche sembra voler dipingere una metropoli del 3000, con tanto di macchine volanti e cartelloni pubblicitari elettronici montati sulla cima di enormi grattacieli. Il mondo creato dai Fear Factory è avanzato, tecnologico, una dimensione dove i robot prendono il sopravvento sugli uomini: ed è proprio quello che succede nel testo di “New Breed”, uno dei brani più corti e veloci del disco assieme a “Flashpoint” (neanche 3 minuti) dove sembra di assistere ad un’invasione di macchine create dall’uomo stesso che recitano lo slogan “We Are The New Breed, We Are The Future”.
La melodia “dolce” ma non meno efficace di “Replica” tratta uno dei temi più dolorosi: quello dell’abuso sessuale sui figli. Il tema dello stupro è affrontato adottando come punto di vista quello della vittima, esplorando i meandri della sua personalità violentata e della sua psiche compromessa. Il brano è meno veloce rispetto agli standards del disco, ma risulta lo stesso efficace ed espressivo, quasi “umano” (il colmo per un disco industrial ).
Per il resto, brani come “Body Hammer”, la già menzionata “Flashpoint”, “H-K (Hunter-Killer”) (l’unico brano del disco dove vengono utilizzati blastbeats, anche se solo in un breve tratto) e “Pisschrist” si susseguono senza un calo di tensione: l’ispirazione è sempre ai massimi livelli, i riffs sono sempre efficaci e posizionati nel posto giusto al momento giusto e, nonostante l’impatto furioso dei brani, qua non si fa a gara a chi esegue il brano più velocemente: viene lasciato spazio a cambi di tempo mai scontati, a tempi dispari (vedi l’intro di “Self Bias Resistor”) e rallentamenti solenni e cadenzati, come accade nella finale “A Therapy For Pain”, brano dal pathos intenso e dall’atmosfera altamente evocativa, per certi versi spirituale, che ben si adatta al tema della morte:
“I welcome death with open arms
Her soft breath and simple charm
Wandering through memories
Takes my hand for me to see…”
Le tematiche sono tutte improntate nel sociale: la corruzione del governo, capace solo di illudere la gente con false promesse, l’alienazione dell’uomo nella società moderna, de-umanizzato e oppresso dalle macchine, il crimine e persino la religione in “Pisschrist”, prendendo posizioni chiaramente anti-clericali.
In conclusione, siamo di fronte ad un vero e proprio masterpiece, uno di quei pochi casi dove la parola “capolavoro” non è sprecata, essenziale per capire il metal nei suoi sviluppi moderni. Un disco indispensabile per gli amanti del metal in tutte le sue forme, ma che di certo arricchirà anche i non cultori del genere. Fondamentale.
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