R Recensione

8/10

Glacial Fear

Filthy Planet

Se i Glacial Fear fossero nati in America, a quest’ora sarebbero già sotto contratto con etichette rinomate come Metal Blade o Century Media e, molto probabilmente, batterebbero la concorrenza di gruppi come Lamb of God, Chimaira, Killswitch Engage e tutta la marmaglia di gruppetti pseudo-alternativi che oggi sono accomunati al filone del cosiddetto “metalcore” (e che, cosa molto preoccupante, vengono additati come il futuro dell’heavy metal). Sfortunatamente, i nostri vengono dall’Italia, nazione che, oltre a non essersi mai impegnata seriamente in un battage pubblicitario che facesse conoscere le sue band all’estero, non è mai stata particolarmente attenta in ambito estremo (d’altronde che pretendete da un paese dove tira gente come Sonohra e Dari?).

La carriera dei nostri, originari di Catanzaro, ha inizio nel lontano 1992, quando ancora era dedita ad un thrash/death grezzo ed abbastanza canonico ma che già faceva intravedere uno stile piuttosto personale. E dopo il debut “Frames”, del ’97, i nostri maturano la loro ricetta sonora con “Fetish Parade” del 2000, dove il loro suono si arricchisce con influenze noise-core ed influssi psichedelici alla Voivod, e li porta al centro dell’attenzione della critica underground. E dopo ben 7 anni di silenzio (interrotti solo dalla pubblicazione di un EP, “Illmatic”, del 2004) i nostri tornano con l’attesissimo seguito “Filthy Planet”, che prosegue, sostanzialmente, il cammino intrapreso dai nostri con la precedente uscita.

Rispetto al passato il suono è diventato più scarno ed asciutto, mettendo in secondo piano gli influssi musicali della precedente prova (ma senza abbandonarli del tutto) in favore di un approccio più thrash-core. L’atmosfera surreale e vagamente oscura che permea il platter si percepisce subito dalla prima traccia, “Addicted to Chaos”, un mid tempo groovy ed efficace sorretto dall’ottimo scream del cantante Giuseppe Pascale, che sembra non conoscere cali di tensione per tutte le 9 tracce del disco. Il riffing di chitarra è tagliente ed incisivo, e si fa particolarmente stridente nelle parti più dissonanti, mentre la sezione ritmica compie un ottimo lavoro, capace di sostenere le velocità più disparate e di cambiare da un tempo all’altro senza ricorrere a virtuosismi inutili e privi di senso. Il che testimonia che i nostri hanno capito che la tecnica da sola non porta da nessuna parte se non è accompagnata dall’ispirazione e dalla capacità di scrivere passaggi efficaci e d’inserirli nel posto giusto, senza trasformare i pezzi in agglomerati di mirabolanti evoluzioni strumentali senza capo né coda.

La traccia che più di tutte si riallaccia al passato del gruppo è la bellissima “Crimescope: the black connection”, che viaggia su binari psichedelici in un’atmosfera allucinata e misteriosa, accostabile a certe cose fatte dagli Alchemist in tempi recenti. Un trip onirico caratterizzato da riffs circolari e dissonanti, decisamente surreale.

Per il resto, brani come “Into the torture house”, “Hannibal Sleeps for 8,5 years” e la bellissima “Worms” (che si apre con un riff letteralmente da capogiro) sono schegge thrash-core schizzate e sparate ad altissima velocità, richiamando, oltre alle solite influenze Voivodiane (specie del periodo Negatron) anche certe sonorità tipiche della scena post-core moderna (Nora su tutti), contribuendo a variegare un suono già di per sé perfetto.

Se proprio dovessimo trovare un difetto al disco, esso lo si potrebbe rintracciare nella durata dell’album: 28 minuti di musica sono un po’ pochini per godere appieno e, considerando che il materiale proposto è di fattura eccellente, spiace constatare che proprio nel momento in cui si entra nel vivo dell’ascolto il disco termini di colpo. Si tratta di un dettaglio comunque, in quanto la voglia di ripremere il tasto Play e di ricominciare il viaggio si farà sentire proprio al termine delle 9 tracce di “Filthy Planet”.

Un grande album, quindi, per una band ancora troppo poco conosciuta, e sarebbe ora che la nostra cara penisola (che vanta in verità formazioni che non hanno nulla da invidiare ai tanto decantati gruppi esteri, e per certi versi sono anche superiori) cominci a mostrare gli artigli nell’ambito della musica pesante: se così accadesse, dubito fortemente che sentirete parlare ancora in giro di gruppetti per ragazzini quindicenni frangettati come Caliban o Atreyu

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