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R Recensione

7/10

John Zorn

49 Acts Of Unspeakable Depravity In The Abominable Life And Times Of Gilles De Rais

Solo uno come John Zorn poteva spingermi a riprendere in mano Huysmans e il suo detestabile decadentismo di maniera, entrambi superbamente accantonati in tempi non sospetti. Tutto, figuratevi un po’, solo per poter carpire qualche informazione aggiuntiva su Gilles de Rais, uno dei più foschi ed abietti personaggi storici di tutti i tempi – e non stiamo parlando del vizietto di accompagnarsi a Giovanna d’Arco – dietro solo all’irraggiungibile maestra di perversione Erzsébet Báthory. E meno male che solo gli stupidi non cambiano mai idea: disdegnando l’autore di À rebours avrei rischiato di perdermi quello di Là-bas, evitando l’esteta degenere e il letterato di maniera non avrei mai conosciuto il cattosatanista tormentato e il frequentatore di oscuri circoli orgiastici. Perché vi regoliate: Gilles de Rais è la personificazione di tutto ciò che il Divin Marchese cullò nelle pagine delle 120 giornate di Sodoma, e anche di peggio. Motivo per cui non si può non apprezzare un libro il cui protagonista scrive una biografia storica sul personaggio. E che dire di un disco a lui, e alle sue nefandezze, interamente dedicato?

Roba da Naked City o da Moonchild, staranno dicendo gli aficionados di Zorn. Quasi. Dopo l’esordio teatrale, i bric-e-brac matematici, le sinfonie infernali e le disarticolazioni dodecafoniche, per gli invincibili Simulacrum (quinto disco in due anni scarsi) arriva il momento di confrontarsi con un disco metal. Metal a modo loro, chiaramente. Insomma, per capirci: in “Scene 9: Descent Into MadnessMatt Hollenberg si permette il lusso di citare il riff di “South Of Heaven”, ma il risultato finale – tra bestiali accelerazioni noise, vampe cacofoniche, library music da incubi perenni e un beffardo finale chiesastico – potrebbe fare da soundtrack allo spietato homo homini lupus agostiano de Nel più alto dei cieli. Nulla che non si sia già sentito nelle prove precedenti, ma compresso in un formato che privilegia l’efficacia all’eterogeneità. Che non si vada troppo per il sottile, d’altro canto, lo mette in chiaro da subito il poderoso riff sabbathiano di “Scene 1: At The Very Gates Of Hell”, un pezzone heavy con uno stacco centrale per chitarra ed organetto che è quanto di più simile ad un ritornello si possa concepire per un brano strumentale. Le sorprese non mancano di certo. La sensazione di sentire all’opera The Dreamers formato Vektor, in “Scene 4: Dark Pageant”, è fortissima. “Scene 2: Angelic Voices” (alla faccia) raggiunge picchi di impatto sonoro inimmaginabili, con un Kenny Grohowski wannabe Richard Christy e un John Medeski del tutto fuori controllo (schema replicato su “Scene 7: Image Of The Beast”, con un montare death in 5/8 da perderci la testa). E se “Scene 5: The Terragrammaton Labyrinth” approfitta di segmenti distensivi da milonga per accumulare tensioni e dissonanze, su “Scene 6: A Cruel Ecstasy” – uno swing esotico devastato dalle distorsioni e tracimante di scorie radioattive, un mixtape per un Joe D’Amato rovinato dall’acidoHollenberg riveste con una corazza NWOBHM un assolo che è pura, immaginifica sostanza jazz rock: un miracolo.

La babele non dura all’infinito: le battute conclusive, a differenza dell’Inferno sadiano, sono a lieto fine, con un funk variopinto e strafottente che lascia a bocca aperta (“Scene 10: The Holy Innocents”). Tutto regolare. Come dice l’andante: il diavolo non puzza di merda, ti fa dubitare che la rosa profumi.

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