John Zorn
Insurrection
Birbantello Zorn, ci hai gabbato tutti unaltra volta, ancora una volta. Ecco, alla buonora, la vera motivazione dellinvito a corte per Julian Lage: oltre Midsummer Moons (pure, come vedremo in seguito, esordio stilisticamente non neutrale, né casuale), lobiettivo era soffiare nuova vita nel fango dei prolificissimi Simulacrum, trasformandoli nientemeno che in Insurrection. Che, se si vuole, dellidea zorniana di metal-pot esoterico, inclassificabile e performante è la terza, consequenziale incarnazione in poco meno di quindici anni. Con una cruciale differenza: se il passaggio da Moonchild a Simulacrum assomigliava allapertura di un nuovo capitolo, anche e soprattutto per la radicale ristrutturazione della band allopera, tra questi e Insurrection aleggia il sapore familiare dellaggiustamento in corsa, della continuità al potere. La differenza tra la formazione di The Garden Of Earthly Delights e quella di Insurrection si esaurisce, di fatto, nella staffetta tra Lage e John Medeski: fuori organo e tastiere finora sempre presenti, già dal first act Simulacrum (2015) e dentro una seconda chitarra, come già per il Marc Ribot del secondo, insuperato capitolo The True Discoveries Of Witches And Demons (2015).
Fine dellaneddotica: non per voler essere rudi, ma sul disco in questione cè parecchio da dire. Delizioso è, tanto per cominciare, linterplay delle sei corde di Lage e Matt Hollenberg: un connubio di fantasia, eterogeneità e potenza che colora di mille sfumature lo spettro sonoro e che, semplicemente, è un piacere ascoltare e riascoltare decine di volte. Potrebbe essere un caso, o forse no, ma è proprio nella tracklist di Insurrection che si consuma lo strappo definitivo o la certificata connivenza? tra il lato più lirico e quello più brutale della scrittura di questo Zorn. La prima istanza è rappresentata, a testa alta, dalla perfetta costruzione melodica di The Journal Of Albion Moonlight: un pezzo che nasce sotto lala romantica e chiaroscurale di Midsummer Moons (la discografia zorniana è come il maiale: non si butta via niente ), procede nella direzione del metafisico klezmer da camera dello Gnostic Trio e si sviluppa lungo struggenti scambi metheniani. La seconda viene difesa, a spada tratta, da Cats Cradle, un quasi math-core in preda al delirium tremens e chiosato in una frastornante orgia noise (assoluta lalchimia col tentacolare Kenny Grohowski). È il gioco degli opposti, baby: un vizietto intellettuale di lunghissimo corso che, sebbene perseguito con minor costanza e schematismo rispetto al recente passato, non termina certo qui. Si pensi agli ipercinetici fraseggi atonali di The Recognitions (una costante tematica, qui demolita da un doppio devastante solismo al fulmicotone, fra thrash e free jazz) ammorbiditi nel lungo blues rabbinico di Pulsations (Nels Cline alle prese con la psichedelia coloratissima di The Dreamers), o ancora inediti funk metal perforati da reminiscenze morelliane (A Void) che si alternano con lounge-surf di inusitata delicatezza (Mason And Dixon riporta le lancette dellorologio indietro al seminale The Gift del 2001).
Vi sono anche, come spesso succede, qualche eccesso solipsistico, come nel massacrante tour de force tecnico e sonoro di The Atrocity Exhibition (dove riemergono certe acide sincopi crossover nel rifferama) e, forse, qualche lento di troppo (Nostromo rimane comunque buona): sporadiche manifestazioni di una sindrome dautocompiacimento che, nel McLaughlin dark ambient di The Unnameable, vengono spazzate via dalla forza comunicativa di una musica sempre in grado di rigenerarsi dalle proprie ceneri. Brindiamo ad un vecchio, nuovo inizio, allora, e che iddio (?) ce la mandi buona (?).
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