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R Recensione

7/10

John Zorn

Insurrection

Birbantello Zorn, ci hai gabbato tutti un’altra volta, ancora una volta. Ecco, alla buon’ora, la vera motivazione dell’invito a corte per Julian Lage: oltre “Midsummer Moons” (pure, come vedremo in seguito, esordio stilisticamente non neutrale, né casuale), l’obiettivo era soffiare nuova vita nel fango dei prolificissimi Simulacrum, trasformandoli nientemeno che in Insurrection. Che, se si vuole, dell’idea zorniana di metal-pot esoterico, inclassificabile e performante è la terza, consequenziale incarnazione in poco meno di quindici anni. Con una cruciale differenza: se il passaggio da Moonchild a Simulacrum assomigliava all’apertura di un nuovo capitolo, anche e soprattutto per la radicale ristrutturazione della band all’opera, tra questi e Insurrection aleggia il sapore familiare dell’aggiustamento in corsa, della continuità al potere. La differenza tra la formazione di “The Garden Of Earthly Delights” e quella di “Insurrection” si esaurisce, di fatto, nella staffetta tra Lage e John Medeski: fuori organo e tastiere – finora sempre presenti, già dal first actSimulacrum” (2015) – e dentro una seconda chitarra, come già per il Marc Ribot del secondo, insuperato capitolo “The True Discoveries Of Witches And Demons” (2015).

Fine dell’aneddotica: non per voler essere rudi, ma sul disco in questione c’è parecchio da dire. Delizioso è, tanto per cominciare, l’interplay delle sei corde di Lage e Matt Hollenberg: un connubio di fantasia, eterogeneità e potenza che colora di mille sfumature lo spettro sonoro e che, semplicemente, è un piacere ascoltare e riascoltare decine di volte. Potrebbe essere un caso, o forse no, ma è proprio nella tracklist di “Insurrection” che si consuma lo strappo definitivo – o la certificata connivenza? – tra il lato più lirico e quello più brutale della scrittura di “questo” Zorn. La prima istanza è rappresentata, a testa alta, dalla perfetta costruzione melodica di “The Journal Of Albion Moonlight”: un pezzo che nasce sotto l’ala romantica e chiaroscurale di “Midsummer Moons” (la discografia zorniana è come il maiale: non si butta via niente…), procede nella direzione del metafisico klezmer da camera dello Gnostic Trio e si sviluppa lungo struggenti scambi metheniani. La seconda viene difesa, a spada tratta, da “Cat’s Cradle”, un quasi math-core in preda al delirium tremens e chiosato in una frastornante orgia noise (assoluta l’alchimia col tentacolare Kenny Grohowski). È il gioco degli opposti, baby: un vizietto intellettuale di lunghissimo corso che, sebbene perseguito con minor costanza e schematismo rispetto al recente passato, non termina certo qui. Si pensi agli ipercinetici fraseggi atonali di “The Recognitions” (una costante tematica, qui demolita da un doppio devastante solismo al fulmicotone, fra thrash e free jazz) ammorbiditi nel lungo blues rabbinico di “Pulsations” (Nels Cline alle prese con la psichedelia coloratissima di The Dreamers), o ancora inediti funk metal perforati da reminiscenze morelliane (“A Void”) che si alternano con lounge-surf di inusitata delicatezza (“Mason And Dixon” riporta le lancette dell’orologio indietro al seminale “The Gift” del 2001).

Vi sono anche, come spesso succede, qualche eccesso solipsistico, come nel massacrante tour de force tecnico e sonoro di “The Atrocity Exhibition” (dove riemergono certe acide sincopi crossover nel rifferama) e, forse, qualche lento di troppo (“Nostromo” rimane comunque buona): sporadiche manifestazioni di una sindrome d’autocompiacimento che, nel McLaughlin dark ambient di “The Unnameable”, vengono spazzate via dalla forza comunicativa di una musica sempre in grado di rigenerarsi dalle proprie ceneri. Brindiamo ad un vecchio, nuovo inizio, allora, e che iddio (?) ce la mandi buona (?).

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