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R Recensione

6,5/10

John Zorn

The Garden Of Earthly Delights

Recentemente, in un gruppo Facebook su John Zorn, un utente ha posto una domanda tanto semplice quanto insidiosa: perché il Nostro ha chiamato ogni capitolo del canzoniere Book Of Angels col nome di un angelo decaduto? Subito mi sono corse alla mente centinaia di ipotesi. È forse legato alle tentazioni di cui questi demoni si fanno portatori, vizi e peccati che impregnano e caratterizzano la vita terrena? È un tentativo di insufflare nella propria arte parte della tradizione misterica ebraica, della Qabbala’h e del Talmud? È una sbornia di numerologia – credibile, se si considera che il totale di composizioni della prima Masada (205), di Book Of Angels (316) e dell’annunciato Book Of Beriah (92) fa 613, tanti quanti sono i comandamenti della Torah che gli ebrei devono osservare? Oppure – ipotesi più sottile e inquietante, ma non meno fondata – si tratta di un omaggio consapevole, il riflesso artistico di un insieme di credenze personali? È risaputo, d’altro canto, che lo Zorn adolescente, prima di incamminarsi sulla via della nippofilia e della morbosa attrazione per le pratiche bdsm, leggeva compulsivamente le opere di Gjurdžiev, Crowley e Spare. E così via, di cavillo in cavillo, finché un altro intervento non ha attirato la mia attenzione: ma se si trattasse solamente di jewish irony?

Ad avvalorare quest’ultima tesi, in “The Garden Of Earthly Delights”, sesto disco in due anni per i superbi Simulacrum (il primo esplicitamente devoluto alla memoria di Hieronymus Bosch), c’è un brano, “Paean To The Prince Of Hell”, che è un esempio lampante di dissociazione cognitiva. Il pezzo è splendido, una sensuale incursione exotica disseminata di break funk e ammiccamenti slide à la Stelvio Cipriani: tutto si penserebbe, meno che al principe delle tenebre, prima che le tastiere di John Medeski non decapitino il groove montante ed inneschino – ma solo per un istante! – un’ammorbante spirale di metal modale. Una dionea piantata in mezzo ad una serra di azalee. Un avvertimento, chiaro e forte: mai pensare di sottovalutare quanto si ha di fronte. “Mirror Image”, per dire, è costruita su uno schema esattamente opposto: attacco trucido e dissonante, progressiva distensione library, esuberante assolo di chitarra del fantastico Matt Hollenberg (qualcosa in mezzo tra Santana e John McLaughlin, se esistesse), improvvisa e brutale quadratura del cerchio (con finale irrisolto). Poi, il gran finale: le cacofonie concentrate di “The Circuit” (novanta secondi di abrasione continua, scorticante, insostenibile) che introducono, a sorpresa, l’episodio più lirico dell’intero platter, una “Out Of The Eternal Sphere” armonizzata ad altezza Gnostic Trio e divinamente gorgheggiata da Sara Serpa (il quarto portoghese delle Mycale). Ancora una volta, l’effetto è beffardo e rigenerante ad un tempo – una sorta di rievocazione della “Between Two Worlds” che chiudeva, in punta di piedi, il terremoto dodecafonico di “Nova Express”.

Inutile rompersi la testa: da bravo alchimista, John Zorn può permettersi di rimescolare centinaia di volte le solite tre carte ed ottenere, ogni volta, un risultato diverso. In “The Garden Of Earthly Delights” il suono si fa ancora più spesso, ricompare in pianta stabile il basso di Trevor Dunn (assente da “The True Discoveries Of Witches And Demons”: sentite come ruggisce tra gli interstizi spettrali e le tempeste elettriche di “The Infernal Machine”), si fa strada qualche parentesi meditativa supplementare (l’intenso respiro da soundtrack di “Eve And Adam”) e gli assalti fisici, oltre che in furenti coaguli di note distorte e giustapposte freneticamente (“Angels And Devils”), sono sferrati anche in maniera meno convenzionale del solito (la title track è un ammasso di orrorifiche suggestioni ambient degne dei sottovalutatissimi Naked City di “Absinthe”). Al netto di qualche segno di fisiologica stanchezza il trademark, in tutto questo, rimane riconoscibilissimo. È persino incredibile constatare come, nell’arco di appena ventiquattro mesi, il progetto Simulacrum abbia acquisito un peso ed un’autorevolezza assoluti, superiori persino all’esperienza Moonchild, che pure poteva contare su musicisti dai pedigree ben più appariscenti (si pensi invece ad Hollenberg, recentemente sbarcato su Relapse col supergruppo John Frum, che esordirà a breve su Tzadik come leader del power trio Shardik).

Misteri insondabili di una mente poliedrica. Alle soglie dei sessantaquattro anni, John Zorn non smette di stupire.

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