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R Recensione

7/10

John Zorn

The Painted Bird

Dietro Kandinskij, tra i miei pittori preferiti v’è, senza dubbio, Hieronymus Bosch: un genio assoluto, avanti anni luce al suo tempo. Alla domanda “perché” si potrebbero mostrare, tanto per gradire, oli come questo, o trittici come quest’altro. Osservate attentamente il pannello centrale del Giudizio di Vienna: sotto l’élite dei beati ribolle la torma dei dannati, vessati nei modi più crudi e realistici che le Fiandre tardo quattrocentesche potessero richiamare. Ai piedi della raffigurazione, accanto ad una spregevole megera seminuda e ad un uomo immerso – alla mercé di un terribile drago – in un barile ricolmo di un liquido non meglio specificato, sgaiattola una terribile figura d’untore, un corvo antropomorfo che si carica sulle spalle (sulle ali?) una gerla ricolma di sciagurati. La destinazione, naturalmente, è lasciata alla fervida fantasia di chi sta dall’altra parte della tela: saranno gli abissi dell’inferno, le proprie viscere, il fuoco eterno?

Figlio della stessa estetica barocca, putrescente e carnascialesca (terreno di incontro-scontro di eccessi rituali, di ribaltamenti magici, di specchi ustori), “The Painted Bird” è un disco così eccessivo, tremebondo e spietato che proseguire nell’ascolto, a tratti, assume quasi i contorni di un’esperienza mistica. Si va delineando, un’uscita dopo l’altra – sono già quattro in poco più di un anno, con la quinta già schedulata per settembre –, la natura del tutto peculiare di Simulacrum: che, dopo la deviazione sinfonica (momentanea?) di “Inferno”, torna a mostrare i muscoli e a proporsi come letale ibrido fra le luciferine scorie metalliche di Moonchild e la disturbante dodecafonia dei primi passi del Nova Express Quartet. Tornando ad occhieggiare la brutale concisione dei movimenti di “The True Discoveries Of Witches And Demons”, il risultato conclusivo perde qualcosa in scorrevolezza – provate voi a scattare sui 100 m con una mannaia perennemente impugnata – nella misura in cui acquista in ferocia e potenza.

Ravens” è il fulcro dell’intero disco: sbucciate le afasie di benvenuto, prende quota un klez-funk – orientato su di una head thrash metal di assoluta presa – dove le sezioni solistiche di John Medeski e Matt Hollenberg si alternano come filler. “Nettles” sembra l’estratto di una versione haunting library di Alessandroni o Morricone, sporcato ogni tanto da inserti easy listening che si volatilizzano sul posto. “Snakeskin” è il pezzo più lungo ed elaborato del lotto, costruito grazie all’alternanza strategia di plumbee sezioni cromatiche, esotismi surf-klezmer e improvvise rasoiate metalliche (con, addirittura, un accenno groove à la Pantera, attorno a 3:30: robe da pazzi): in meno di sette minuti e mezzo pare di sentire, frullati assieme, “Dreamachines”, “Pellucidar – A Dreamers Fantabula”, “The Crucible” e “Alhambra Love Songs”. I mefitici arabeschi per organetto di “Cinders”, una “Spike” che nella pars destruens ricorda da vicino “Ecclesiastes” (salvo fregiarsi di un intenso inabissamento lounge che avvicina il vibrafono destabilizzante di Kenny Wollesen e il Voudun di Ches Smith), le friggioni ansiolitiche di “Plague” (Hollenberg si lancia in un assolo da vero guitar hero, fra Death, Megadeth e John Scofield) e la conclusiva “Missal” che, pur non avendo la statura di una “Mirrors Of Being”, regala uno spaccato di grande melodia crepuscolare, fissano bene in alto l’asticella della resistenza: chi cede, sarà dannato.

E sarà pur vero che all’inferno c’è buona compagnia, ma a spasso con un corvo non dev’essere comunque il massimo…

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