Pantera
Cowboys From Hell
Gli USA sono terra grunge e il metal occidentale sembra rassegnarsi al ritiro europeo. Nel 1990 arriva invece una fiammata che riporta l’attenzione oltreoceano, scatenando un culto di venerazione che accompagnerà Phil Anselmo e soci in tutti i tempi a venire, complici anche i dissidi interni al gruppo e la tragica fine di Dimebag Darrel.
Succede raramente che i gruppi musicali facciano la mossa del paguro, abbandonando un guscio per cercarne un altro più adatto alle proprie esigenze, cancellando completamente il ricordo della vecchia produzione. Eppure Cowboys From Hell è per l’immaginario collettivo il primo disco dei Pantera, obliando i ben 4 LP che lo precedettero (tra il 1983 e il 1988). Certo ad ascoltare Metal Magic (1983) e Vulgar Display Of Power (1992) si fa fatica a credere che ci si trovi davanti allo stesso gruppo musicale. Da un classico e non eccelso street glam si passa a un duro thrash metal a misura di cattiveria umana.
Sarà grazie al tour di supporto a questo disco che i cowboys dell’inferno riusciranno a conquistare le prime schiere dei loro numerosi fan, soprattutto americani ma non solo. I riff di chitarra di Dimebag Darrel e la batteria di Vinnie Paul alzano muri impressionanti, verticali e puntati contro il cielo. Dall’alto arriva la voce graffiata e diretta di Phil Anselmo, accompagnata da un buon lavoro di ritmica del basso di Rex Brown, relegato a seguire l’infaticabile Vinnie Paul.
Non è ancora la band del groove metal, come sarà nota nel mondo dopo il successivo Vulgar Display Of Power, ma alle influenze dei Judas Priest si è aggiunto il thrash di Metallica e Slayer, che nella fine degli anni ’80 avevano scosso l’intera colonna musicale della musica del diavolo.
Niente elementi barocchi, niente eccessi, semplice e lineare tragitto, che marcia inarrestabile e calpesta tutto quello che ostacola il percorso. Sicuramente contiene non pochi elementi innovativi, che verranno sviluppati soprattutto nel Nu-Metal statunitense, ma considerare il disco un capolavoro significa rimanere intrappolati in giudizi di parte, cedendo al fascino che li ha innalzati a divinità metalliche. C’è moltissima qualità, contenuti e voglia di fare musica. è un frutto maturo e fresco allo stesso tempo, una mela appena raccolta di quelle che non venivano riempite di strani prodotti alchemici. Da un’analisi sociologica sarebbe anche facile capire come mai negli anni ’90 questo gruppo sia riuscito a intagliarsi un riquadro da protagonista.
A rischio di ritrovarsi crocifisso a testa in giù bisogna che lo dica; si pecca di linearità e gusto commerciale. Nessuno dei due è un difetto in sé, ma di certo risultano quasi un limite alla cattiveria che viene espressa e comunicata. Qui il cuore di ciò che toglie Cowboys dall’Olimpo musicale. L’innovazione è ben ancorata alle influenze e il tetro clima che ne esce fuori non è inedito nella storia della musica.
Resta un concentrato importante e immancabile per ogni amante della buona musica. Le vette toccate da Heresy e Cementery Gates (ascoltatele, perché la loro grandiosità risiede nell’impatto che riescono ad avere sul malcapitato passante) valgono da sole l’acquisto del disco. Dalla doppia cassa di Domination alla parte strumentale di Clash With Reality, dall’assolo di Medicin Man al basso di The Sleep vi ritroverete immersi in un periplo da cui si fa fatica a uscire.
Resta un pezzo fondamentale da cui non si può prescindere per capire molte delle proposte degli ultimi tempi, un lavoro onesto e della numerose qualità, non un capolavoro.
Ed ora il recensore saluta, china la testa e si prepara alla decapitazione voluta dalla schiera di anselmiani, che ancor oggi si raduna ai concerti dei Down, pestando durante il pogo chiunque metta in dubbio il ruolo profetico dei Pantera.
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