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R Recensione

4,5/10

Slayer

Repentless

Un appassionato di Slayer non si chiederà se sia nato prima l’uovo o la gallina: s’interrogherà piuttosto, con dovizia di particolari, sul crinale che separa il batterismo di Dave Lombardo, tutto genio e sregolatezza, e quello di Paul Bostaph, preciso ed implacabile per quanto assai meno imprevedibile. Chi scrive – pur non potendosi esattamente definire un die-hard fan – non ha dubbi nell’accordare le sue preferenze al musicista ora in forza ai Philm: che d’estrazione è metalhead, certo, ma ha ampiamente dimostrato nel tempo la sua crescente duttilità nell’affrontare mondi e linguaggi altri dal suo pedigree, uscendone praticamente sempre a testa alta. Bostaph, dal canto suo, è un musicista stilisticamente più limitato, ma del tutto affidabile: niente colpi di testa, niente ugge da primadonna, niente personalismi. Solo metodo e impegno, lavoro sporco, da miniera, tecnicamente superbo: un basso profilo ideale, per un disco come “Repentless”.

Ed allora arriviamoci, al cuore dell’undicesimo full length degli assassini californiani, un campionario di anomalie formali e stereotipi contenutistici da far sorridere i più pervicaci sostenitori della legge di Murphy. Sulle prime, la sintesi la conoscete tutti: già all’epoca dell’uscita di “World Painted Blood”, sei anni fa, si vociferava che sarebbe stata l’ultima prova della band. Un segno funesto del destino, uno scherzo crudele, a posteriori. Poi, i cataclismi, gli schiaffi della vita, arrivati uno in fila all’altro: il terzo allontanamento di Lombardo, l’imprevista malattia di Hanneman, i turnisti che si alternano vorticosamente, il crollo e la tragica scomparsa della seconda chitarra, la rescissione con American Recordings e la firma per Nuclear Blast, la criticatissima decisione di andare avanti nonostante tutto (è stato in questi frangenti che Kerry King ha fornito una prova, al mondo intero, di quanto impalpabili possano essere i residui legami umani di fronte al dio denaro), l’assunzione a tempo indeterminato di Gary Holt degli Exodus. Infine, “Repentless”, le cui partiture – se si esclude il contentino alla memoria di Hanneman che è “Piano Wire”, un oscuro e bellicoso midtempo senza eccessive pretese – sono state interamente scritte dallo stesso King.

Parlare di “varietà” per un disco degli Slayer è come aggettivare “rococò” un casermone sovietico: decisamente fuori luogo. Forse che lo sia meno, d’altro canto, definire “Repentless” un disco degli Slayer? Probabilmente no. Checché se ne dica, la differenza di approccio e composizione, rispetto ai dischi precedenti, si avverte da subito: e non ci si riferisce al perpetuo gioco di rimandi autoreferenziali cui costringe il riffaggio, la sezione solistica, lo screaming di Tom Araya (vigoroso nonostante l’età: lo scorso giugno ha compiuto cinquantaquattro anni), il tocco esplosivo e senza fronzoli di Bostaph (che la produzione mette costantemente in rilievo). Jeff Hanneman era la mente anticonformista della band, l’autore dei brani migliori, il ragazzino lungocrinito innamorato dell’hardcore, il vero architetto di un trademark unico al mondo. Tolti lui e Lombardo (il più dotato, il più aperto musicalmente), quello che rimane è un bombardamento thrash di quaranta e passa minuti, senza tregua e senza alcuna concessione esterna. È un suono impenetrabile e stagnante che, da qualunque prospettiva lo si veda, evolverà sempre nello stesso, identico modo: distorsione a palla e tupa tupa da nosocomio (solo l’iniziale “Delusions Of Saviour”, recuperando i mefitici arabeschi di “South Of Heaven”, si concede un minimo respiro). Così suonava Kerry King nel 1981, così continua a suonare nel 2015. Persino l’iconografia, residuo di una provocazione di facciata ormai muffita e scontatissima, rimane immutata.

Il principio-Motörhead (non conta l’eterogeneità, quanto la capacità di aderire nel miglior modo possibile al proprio canone) non può, qui, essere applicato efficacemente: i pezzi non hanno alcuna identità e non vanno da nessuna parte. Peggio di “Christ Illusion” non si poteva fare, ma persino le canzoni del modesto “World Painted Blood” si ergono a capolavori, se paragonate allo spento groove di “Vices” (i Cavalera Conspiracy a velocità dimezzata?), a una “When Stillness Comes” che sembra fare il verso alla “213” di “Divine Intervention”, 1994 (non a caso, il primo disco con Bostaph dietro alle pelli), alle consuete macine “Repentless” e “Implode” (disonore su quest’ultima, che abortisce un interessante spunto chitarristico in controtempo per preferire la classicissima spianata thrash), a “You Against You” (la promessa di uno sviluppo hardcore old school à la Sick Of It All frustrata dagli assoli disarticolati di King e Holt)… Brano migliore del lotto è “Cast The First Stone”, limaccioso heavy metal d’assalto e d’atmosfera: il che la dice tutta.

Torniamo al punto di partenza: cosa ne sarà degli Slayer dopo “Repentless”? Il carrozzone è ampio, tante sono le persone che grazie ad esso si sostentano: difficile staccare del tutto la spina. Eppure, per rispetto, per dignità, bisognerebbe farlo. Nessun futuro, aldilà delle nostre poco tenere parole, attende questa formazione.

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Voto degli utenti: 4,5/10 in media su 3 voti.
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