Slayer
World Painted Blood
Traditur, si dice. Che World Painted Blood sia lultima voce in capitolo di una carriera, quella degli Slayer, ormai trentennale e sfavillante, ma negli ultimi anni offuscata dallimplacabile velo manieristico ed auto celebrativo che ha atrofizzato e liofilizzato la distorsione thrash ad inizio anni 90. Che la storica, fasulla, mediatica rivalità coi Metallica sia destinata a concludersi a loro favore: a Tom Araya, Death Magnetic, patetica ed amorfa rinfrescata giovanile su vetusti corpi gravitanti attorno allidea del Mondo Denaro, davvero non era andato giù (When I heard the Metallica album, it didnt appeal to me at all. And all I could think about was, Man, what happened?), a tal punto da controbattere con la release di un nuovo brano, Psychopathy Red, lontanissimo da una The Day That Never Comes anche solo per la concezione stessa dellimpatto metal. Già, nellelenco delle nugae volgi è necessario aggiungere ciò che si pone come corollario da un decennio a questa parte, ovvero limperturbata immutabilità di un suono che, sebbene non abbia bisogno di presentazioni, era divenuto così prevedibile da non poter essere altrettanto efficacemente commentato. Daltro canto, se i quattro assassini di Los Angeles avessero optato per un radicale rinnovamento del proprio stile giusto sul traguardo finale, la critica avrebbe parlato o meno di confusione cerebrale?
Ripartire proprio dallultimo singolo, perciò, appare lunica scorciatoia percorribile per appigliarsi ad un giudizio che non si basi, ancora una volta, sul cursus honorem del gruppo. Tuttaltro che entusiasmanti, i due minuti e mezzo di Psychopathy Red apparivano però in tutta la loro straripante urgenza hardcore, cercando di far obliare, goffamente, i preoccupanti ribassi creativi culminati nel precedente, sciatto, inutilmente provocatorio Christ Illusion, del 2006. Fregandosene del tempo che passa, della smania dei fan, delle onnipresenti associazioni di censura, World Painted Blood è anzitutto un disco senza compromessi. Meno male, verrebbe da dire, riferendoci allincomprensibile serie di (dis)adattamenti ripresi in considerazione da God Hates Us All in poi. Ritroveremo, come al solito, le chitarre lanciate su sghembe traiettorie a velocità supersonica, i latrati raschiati di Araya, uno dei batteristi migliori che il rock abbia mai generato, Dave Lombardo, dietro pelli sempre più consunte e fustigate da profluvi di blast beat. Eppure, sarà il contratto di pensionamento che si avvicina perentoriamente, non manca la voglia di esplorare, pur nelle limitate prospettive di quattro ottimi musicisti sviluppatisi, sfortuna loro, nei background più intransigenti del microclima thrash, soluzioni che si distacchino dal classico schema della grattugiante mannaia a sei corde e unugola (Unit 731).
Il senso di soffocamento ed impotenza permanente, mai così vivido e reale da almeno un quindicennio, viene restituito e rigettato ottimamente sia dai testi, che dipingono scenari catastrofici senza possibilità di redenzione alcuna (Disease spreading death / Entire population dies / Dead before you're born / Massive suicide / Vicious game of fear / It's all extermination now / Poison in your veins / Global genocide / Slaughter governs law / The apocalypse begins / Pain becomes the norm / Seeking homicide / Beware the coming storm / That starts illuminating fires / God is laughing hard / Man has gone insane, direttamente da unasfissiante title-track), che dalla musica, strutturata non tanto per aggiunta chitarristica quanto, ecco la relativa sorpresa, per strati cromatici più sottili di quelli che ci si sarebbe dovuto attendere (esempio è il meticcio crossover di Human Strain e quella cappa di nera tensione che fluisce ancora da una Jesus Saves datata 1986). Così, anche le lingue di fuoco che divampano da Beauty Through Order, sebbene citino apertamente Flesh Storm, sono accese su un chiasmo di accelerazioni stupefacente, ed altrove la velocità prende il volo da subito, come nella carneficina death di Public Display Of Dismemberment o nei modellismi solistici, a dire il vero gratuiti, ricavati dallo stampo di Snuff, che si butta però via nel finale fracassone.
Non è, consciamente, una pietra miliare, né tantomeno lo sarà in futuro. La scrittura degli Slayer, tuttavia, anche se palesemente sconfitta, ne esce a testa alta perché, frammezzo alle banalità da compendiario per il gerontocomio (Hate Worldwide, orribile), si scorgono quei lampi di classe totalmente oscurati nel decennio in trascorrere, sprazzi di finta luce immersi nella fosca opacità della più chirurgica disillusione: Playing With Dolls, con il suo tapping pendolare, è la saccarina più velenosa che i quattro ci potessero rifilare dai tempi di 213, storia di similare follia tumulata tra le macerie di Divine Intervention.
Addio, allora: o, piuttosto, arrivederci. Non vi ricorderemo per questo, ma vi ricorderemo così.
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