R Recensione

6/10

Simon Joyner

Skeleton Blues

Con 13 anni di attività e 8 dischi alle spalle, Simon Joyner se ne esce, con questo Skeleton Blues (2006), col disco che ti spiazza: chi ha avuto modo di ascoltare il cantautore di Omaha in passato se lo ricorderà come dolce e intimista, romantico e soffice. Dimenticatevi tutto ciò. Skeleton Blues regala ciò che promette nel titolo, fin dall’iniziale Open Window Blues: un mantra Velvetiano attraversato da feedback di chitarra minacciosi, come se il Dylan di Highway 61 andasse a suonare coi Velvet Underground ( o i Television) facendosi aiutare negli arrangiamenti da Nick Cave.

In generale, anche quando nei pezzi successivi l’atmosfera si distende, si avvertono, fortissime, l’influenza di Lou Reed e Bob Dylan: nel country-folk sconsolato di You Don’t Know Me come nella ballata Answer Night, sotto lo stomp di Medicine Blues come tra le note dolenti delle folk ballad di chiusura Epilogue in D e My Side Of The Ballad, dove rispunta però con grazia il fantasma di Leonard Cohen, quasi a riappropriarsi di un passato musicale distante solo un paio d’anni.

Un disco teso e greve prima, assorto e fragile poi. Uno shock per qualcuno, una piacevole sorpresa per altri, Skeleton Blues, attraverso i suoi labirinti angusti ed i suoi spazi confinati rievoca i grandi dischi cantautoriali degli anni ’60, gli avventurosi cammini di gente come Tim Buckley ed Harry Nilsson: non ne avrà la statura ma resta un disco coraggioso, meravigliosamente fuori dal tempo e dalle mode.

V Voti

Voto degli utenti: 6,5/10 in media su 2 voti.
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