Jessy Lanza
Oh No
Tre anni fa, con Pull My Hair Back, Jessy Lanza, coadiuvata dal Junior Boy Jeremy Greenspan, dava vita ad un interessante esperimento di r&b elettronico, capace di giocare con un frasario post-step ammiccante e sensuale -molti i lasciti house- e al contempo robotico e techno: una sorta di ibrido tra Jessie Ware, Grimes ed una FKA twigs meno esoterica e più convenzionale. Il nuovo Oh No, invece, cambia direzione, concentrandosi su un sound minimalista e rigoroso (la produzione chirurgica, le trame spesso serrate, il songwriting affettato e conciso), ma dotato anche di ampio respiro, per vaporose vedute sci-fi che allargano i confini di una formula sempre più indefinibile e ammaliante (capace di far convivere in una salda stretta i riferimenti più disparati, da Prince ai Cocteau Twins -si senta lultima Could Be U-, da Aaliyah a Tahliah Barnett).
Larpeggio di New Ogi, con la vocina eterizzata della Lanza (così distante dalla carnalità dellesordio), fa da apripista alla straniante VV Violence, un progredire minimale di frammenti ritmico-timbrici, con quella drum machine in metronomico hi-hat e le frasi oblique -in tutto e per tutto Princeiane- di synth . Si respira una rinnovata energia nelle sapienti dosature di Oh No: ogni pezzo è misurato al millimetro ma, ben lungi dallapparire statico, risulta invece, nella sua andatura sciolta e spaziosa, a sprigionare ancora più estro, che si tratti dei momenti maggiormente dance (la house pulsante di Never Enough, lr&b in salsa purple sound di Oh No), o delle sinuose ballate electro (I Talk BB, ad esempio, splendida prova canora in riverbero persa nellaleggiare tremolo del synth, ma riportata a galla da pochi, efficaci, accordi di tastiera).
Jessy Lanza e il suo compare Greenspan lavorano sulla messa a fuoco, sulla definizione, controbilanciando il minimalismo compositivo non solo grazie ad un'ottima gestione degli espedienti melodici, ma anche alla riuscita padronanza di un approccio sospeso tra abbandono e controllo: come non parlare di trance per pezzi ossessivi come Going Somewhere e It Means I Love You, entrambi sospesi in unatmosfera fumosa e onirica, eppure mai incerti sui percorsi da seguire (il formicolare ritmico del primo, addolcito dallaccoppiata balsamica synth-voce; il loop mesmerizzante del secondo, che presto si lancia in un frenetico e sudaticcio intrico footwork).
Tirando le somme, la nuova prova di Jessy Lanza allarga sensibilmente lo spettro sonoro dellesordio, recuperando il tocco esoterico allora mancante e facendo funzionare al meglio la nuova formula. Come da copertina, la Lanza prende le sembianze di una sacerdotessa glitterata, immersa in una rarefatta (e quanto mai artefatta) atmosfera psichedelica. Lalbum suona proprio così, come una prova di pop elettronico visionario ed ardito, anche se costruito ad arte. Lambiguità che ne risulta è oltremodo affascinante, e contribuisce a rendere tanto apprezzabile la seconda fatica di unartista che sembra avere il futuro dalla sua parte.
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