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R Recensione

6/10

Amari

Polverone

Sebbene vengano spesso fatti passare come sinonimi, c’è una differenza sostanziale tra l’essere nati non nel proprio tempo e l’essere nati nel tempo sbagliato: la seconda formula tende ad implicare sia un certo pionierismo d’intenti che il loro generale fallimento – un fallimento, si capisce, non lasciato intendere dalla prima formula. A tal proposito, gli Amari sono il classico gruppo nato non nel proprio tempo: anche perché, obiettivamente, come si fa ad accusarli di aver “fallito”? Di essere stati sottostimati, probabilmente: di essere stati al contempo progenitori e progenie di certe, primissime, lontanissime e persino (retroattivamente) buffe logiche indie – le camerette, le magliette a strisce con le sneakers, gli occhiali da sole tarocchi, gli stick fluo, MySpace... Ma fallire no. Si legge spesso in giro, in una sorta di riconoscimento tardivo, che senza l’isolata lezione degli Amari non avremmo avuto né la prima, né tantomeno la seconda ondata di quell’indie ibrido pronto per scalare le classifiche mainstream (se merito o colpa, ognuno decide per sé stesso). Certo, spunta un sorriso anche solo a paragonare l’allora con l’ora, un “Grand Master Mogol” con un Coez o un Calcutta qualsiasi: grosso come una casa è l’abisso nel metodo, nell’intenzione e – va detto, anche a costo di suonare nostalgici – nel risultato finale.

Ed eccoci qua, quasi diciott’anni dopo l’esordio “Corporali”, a discutere non di fantascienza, ma di un nuovo lavoro lungo degli Amari, la prima uscita per la pigliatutto Bomba Dischi (Riotmaker non è mai diventata quell’officina di pop sbagliato che avrebbe potuto essere in prospettiva) e primo segnale di vita dal bel “Kilometri” (2013). Un disco inaspettato per come e quando è stato annunciato, “Polverone”, ma tutto sommato assai prevedibile nel suo rivelarsi. Se il rovescio della medaglia di ogni discorso generazionale è la constatazione dello stato di salute nel dato presente, c’è da dire che i tre ragazzi friulani ce la mettono tutta per aggiustare la forma della loro missione: profluvio di beat elettronici, svirgolate di vocoder a destra e a manca, riesumazioni degli scheletri di certo pop italiano degli anni ’90 (“Le Ragazze Nei Sogni” è il brano migliore del disco e sembra la versione Ex-Otago di una vecchia hit di Luca Carboni). I maestri che giocano a fare gli alunni? O forse è la riverniciatura esteriore, l’adattamento di una sostanza pervicacemente uguale a sé stessa, come testimonierebbe il primo verso della diaristica “Punkabbestia” (“E ogni volta che torniamo in questa città / Bisogna controllare che sia tutto qua / Tipo: questo vicolo dov’è che porta? / È una scoperta di quindici anni fa”)?

È un aspetto, a ben vedere, di non poco conto. C’è un peso del passato, una nostalgia acutissima che pervade ogni fibra di “Polverone” ancor più che nel recente passato, una Sehnsucht che proprio in “Punkabbestia” sboccia in tutto il suo vigore: il terrore di passare per via Stalingrado a sorbirsi un altro film da Fuori Orario, di vedere dei lavori in corso, che il posto dell’adolescenza abbia lasciato spazio ad altro e che non ci sia più nessuno a ricordare. “Prima di partire / Che cosa ti devo dire? / Sono i ricordi che ci tengon per le palle / Sono i ricordi che ci stringono le spalle / Ed impediscono ogni volo”: l’autotune posticcio del ritornello di “Prima Di Partire” non potrebbe essere più esplicito. Un millennial potrà anche godersi la sottile intelaiatura electro-pop, ma riuscirà ad arrivare al senso ultimo del pezzo? Il nerdismo dell’hip pop di “Dinosauro”, con l’interpolazione nel refrain della sigla di Ken il Guerriero, verrà recepito da chi ascolta compulsivamente “Completamente Sold Out”? Cosa fare della serpentina indie pop, venata di lounge, che dona vivacità al french touch di “Portami In Vacanza Con Te”? E che contemporaneità possono avere i Lali Puna mediterranei di un’“Arte Primitiva” modellata a puntino su un ideale profilo -anta?

La verità è che “Polverone”, pur tentando ogni volta di rimescolare le carte, torna sempre a fare quello per cui è stato concepito: l’ennesimo capitolo degli Amari. Non è miopia, né rigido conservatorismo: è giusta rivendicazione del proprio ruolo. Anche se musicalmente qualche volta, come per il vecchio “Poweri”, il naso lo si storce per davvero – l’urban post-Ghali, di terza mano, di “Lamentele”: la confusione strutturale del downtempo di “I Documentari Sullo Spazio”, tra logorroici flow, chitarroni wah e una demenziale coda filtrata –, quello degli Amari è un sacrosanto riconoscimento che regala, tra le altre cose, almeno un singolo-gioiellino alla vecchia maniera (“Gatti Di Polvere”). “Polverone” è un disco che si traveste da nuovo per parlare di vecchio: per parlare, nientemeno, di noi.

Si perdonino autoindulgenza e tentazioni giovanilistiche: ché se avessero voluto davvero giocare sporco, gli Amari, quest’uscita l’avrebbero procrastinata a giugno. Non c’è niente da fare: i ragazzi sono davvero nati non nel loro tempo…

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