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R Recensione

8/10

Calibro 35

Calibro 35

Per quanto possa sembrare strano che un disco vecchio di appena un decennio necessiti già di essere spiegato ed inserito in un adeguato contesto storico, nel caso di un gruppo che di e su filologia e storicismo è nato ed è sbocciato impetuosamente il compito s’impone con particolare cogenza. A primeggiare a posteriori con la sfera di cristallo sono capaci tutti ma, con la prospettiva del poi, in un certo senso, i prodromi del progetto Calibro 35 possono essere interpretati come la fase terminale di una lunga, accidentata e non sempre indolore riesumazione del bistrattato “patrimonio artistico” italiano – laddove la patriottica definizione volutamente data fra virgolette comprende un non meglio definibile (e difatti non definito) miscuglio di artigianato cinematografico, lussuosa sartoria musicale di corredo e, ancora più in generale, un guazzabuglio di tratti ed elementi estetici (architettonici, stilistici, finanche ideologici e/o sussumibili in una quanto mai omnicomprensiva way of life) riconducibili alla liberissima e perigliosa stagione culturale degli anni ’70, inferno e paradiso del libero pensiero (ma libero veramente). Chi volesse poi barcamenarsi fra soriti, uova e galline potrebbe iniziare a chiedersi: senza l’endorsement di Quentin Tarantino sarebbe esistito tutto questo? Quanto ha influito sulla mitizzazione di Sixties e Seventies l’ombra incombente del più devastante crack economico del dopoguerra? E ancora, la più spinosa di tutte: qual è il limite, se esiste, fra revisionismo e revanscismo, tra riscoperta e dietrologia? Sono spunti su cui già si è riflettuto, sebbene non abbastanza, e che costituiscono un buon punto di partenza per i cultori della storia delle idee – una storia, questa sì, ancora non scritta. A noi, invece, la musica.

Quando l’idea del gruppo comincia a materializzarsi, nel 2007, l’Italia in note – come spesso accade in questi frangenti – sta guardando verso tutt’altre direzioni: il neo cantautorato situazionista esploderà da lì a breve, promettendo meraviglie mai mantenute (o, per meglio dire, irrigiditesi in stereotipo a tempo di record), mentre, al contempo, prende forma la luminosissima e fugace nebulosa del Canalese noise – una fucina di purissimi talenti durati il tempo, ahinoi, di uno o due dischi al massimo. Mastermind dei Calibro 35 è l’unico non-musicista della formazione, quel Tommaso Colliva che supervisiona le registrazioni degli Afterhours nello stesso periodo in cui vi fa il suo ingresso il geniale polistrumentista Enrico Gabrielli, fino a quel momento attivo principalmente nei Mariposa e come arrangiatore per terze parti. La scelta degli strumentisti che completino la lineup ricade su nominativi che, pur essendo poco noti al grande pubblico, già sottendono una più ampia progettualità di fondo. Alle chitarre si aggrega Massimo Martellotta, un discreto sessionman attivo, in solo, come compositore di jingle e colonne sonore. Il basso viene imbracciato da Luca Cavina, fresco uscito dall’esperienza dei Transgender (con, fra gli altri, due personaggi che si presentano da soli: Paolo Mongardi e Lorenzo Esposito Fornasari) e collaboratore di Giovanni Lindo Ferretti e dell’allora esordiente Beatrice Antolini. Infine, dietro le pelli, si accomoda Fabio Rondanini, versatile batterista molto attivo nell’area del cantautorato romano (Niccolò Fabi, Daniele Silvestri, Roberto Angelini). Nessuno ancora lo può sapere, ma è l’inizio di una grande storia.

L’impatto di “Calibro 35” si può tarare su due bilancini: uno oggettivo, statistico, e l’altro soggettivo, estetico. Il primo parametro è non meno che impressionante: provate a tenere il conto di quante band, direttamente o indirettamente, sono state ispirate dall’iniziativa ecdotica dei quattro+uno. Una lista parziale comprenderebbe, in ordine sparso, almeno Acusmatic Group, La Band Del Brasiliano, La Batteria, Starship 9, L.U.C.A. – questo ad escludere le influenze parziali, la conseguente seconda giovinezza vissuta dalle golose ristampe di Cinedelic e Cinevox (il sempre provvidenziale Superonda di Valerio Mattioli ne fornisce una sintesi esaustiva) e, ça va sans dire, l’eco riverberatasi in ambito internazionale (citofonare dai Cat’s Eyes in giù per conferma). Se a questo si aggiungono, poi, i riflessi gravidi di conseguenze per il ripensamento delle regole cinematografiche e il recupero di quell’estetica generalista di cui sopra, il rischio è di trasformare in un vero e proprio saggio quella che era partita come recensione commemorativa. Meglio passare, allora, al secondo criterio, per certi versi più delicato e discutibile, ma non meno importante. In questo caso è quantomai sconveniente attenersi alla vulgata amante del formalismo che suole etichettare l’esordio dei Calibro 35 – originariamente uscito proprio per Cinedelic, poi rimesso in commercio da Tannen in versione ampliata – come un “disco di cover”. Certo, su quindici brani in scaletta gli originali sono appena due (una proporzione irrilevante, che di disco in disco si farà sempre più sostanziosa, arrivando al predominio totale nel magistrale “Traditori Di Tutti”), ma le riletture di composizioni altrui sono ben più che semplici omaggi, ben altro che rifacimenti pedestri di passioni giovanili: sono, piuttosto, un’impeccabile operazione di riappropriazione semiotica di contenuti diatopicamente e diastraticamente altri, l’interpretazione e la modernizzazione di un retaggio culturale comune, non dissimile da un patrimonio folklorico “classico”, che rischiava di andare perduto per sempre.

Scommessa rischiosa, data anche la congiuntura socioeconomica d’allora non particolarmente favorevole, eppure stravinta, e pure con autorità. Ogni pezzo è uno scrigno delle meraviglie, ogni esecuzione trabocca di estetismo. I suoni, in particolar modo, qui ancor più che nei lavori successivi, sfiorano la perfezione, a partire dallo stomp noir macerato nel fuzz di “Italia A Mano Armata” (opera del maestro Franco Micalizzi per l’omonima pellicola del 1976 di Franco Martinelli), passando per lo scatenato wah che anima il groove spiritato di “Shake Balera” (obliato capolavoro di Peppino De Luca per la soundtrack de La ragazza con la pistola di Mario Monicelli, A.D. 1968) e per le devastanti serpentine prog-jazz che infuriano tra i maestosi svolazzi sinfonici del “Preludio” di Milano Calibro 9 (cortesia dei mitici Osanna e del compianto Luis Bacalov, i cui archi vengono qui presi in consegna dall’irreprensibile Rodrigo D’Erasmo). Il caposaldo di Fernando Di Leo, punto di riferimento comprensibilmente inamovibile dell’immaginario della band, viene citato nuovamente in quello straordinario “Bouchet Funk” che rielabora l’improvvisazione prog-funk che fa da sfondo alla scena più bella della storia del cinema: un’autentica gemma, oscurata solamente dai letali salti armonici in crescendo della giga acida di “Summertime Killer” (ancora Bacalov, per Ricatto alla mala di Antonio Isasi-Isamendi, 1972: pezzo poi riutilizzato anche nel secondo capitolo di Kill Bill) e dall’inatteso afflato romantico che si fa sottilmente strada tra le apparizioni psichedeliche per big band de “La Mala Ordina” (lavoro di spessore di Armando Trovajoli per il film di Di Leo del 1972).

Calibro 35” è disco iperdinamico, guizzante (anche nei suoi frangenti più stroboscopici e cadenzati, come la “Spiralys” di Daniela Casa incredibilmente ripescata da una sconosciutissima raccolta library del 1975, “America Giovane N. 2”), imprevedibile e mai banale, capace di ossequiare e dialogare al contempo con la cultura “alta”, colta, e i sommovimenti “bassi”, popolari. Si vedano da un lato, ad esempio, gli autografi morriconiani: la spoglia e rigorosa “Indagine” dal capolavoro petriano del 1970, il madrigale minimalista di “Una Stanza Vuota” – originariamente cantata da Lisa Gastoni per Svegliati e uccidi di Carlo Lizzani (1966) –  e gli sbalestramenti acid-free jazz di “Trafelato”, scritta per la soundtrack di Giornata nera per l’ariete di Luigi Bazzoni (1971); dall’altro, lo scatenato e caciarone groove funk di “Gangster Story” – approntata dai fratelli De Angelis per La polizia incrimina, la legge assolve di Enzo Castellari (1973) – e il metronomico anthem monoriff di “Notte In Bovisa”, originale calligrafico ma efficacissimo (al contrario degli sperimentalismi impro di “La Polizia S’Incazza”, ancora acerbi e sostanzialmente irrisolti) e, difatti, parte integrante di ogni loro setlist dal vivo. Questa duplicità d’intenti – raffinatezza e fisicità, sofisticazione ed impatto – si mantiene intatta e coerente fino al gran finale, dedicato ad una superba rilettura lounge de “L’Appuntamento” (uscito come singolo nel 1970) nella quale, a fare le veci della peculiare voce di Ornella Vanoni, si pone coraggiosamente il timbro vellutato di Roberto Dell’Era.

Sono i titoli di coda, in uno struggente e superbo Technicolor, della prima opera di una band destinata (come dimostra fragorosamente il recentissimo “Decade”) a scrivere pagine importantissime della musica italiana contemporanea. È proprio questa, la genesi: il disco altrui, ma già così meravigliosamente proprio, dei Calibro 35.

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