Curtis Mayfield
Superfly
Sono pochi gli artisti nella storia della popular music che possono vantare una discografia tale da mantenersi costantemente su livelli qualitativamente eccelsi: uno di questi è sicuramente Curtis Mayfield, il falsetto di Dio, una delle voci più carismatiche nella storia della black music tutta. Egli si fa conoscere sin da giovanissimo negli anni Sessanta, come componente del gruppo degli Impressions, una delle formazioni più importanti dell'epoca, impegnata nella lotta per la rivendicazione dei diritti civili della comunità nera, autori di capolavori intrisi di soul, r'n'b,gospel,quali It's Alright, I Made A Mistake e, in particolare, People Get Ready, gemme intrise di un'ideale (pro)positivo fatto di fede, speranza, libertà, autentica trasposizione in musica del messaggio di fratellanza universale portato avanti in quegli anni da personaggi come Martin Luther King.
A partire dagli anni Settanta, invece, il nostro Curtis deciderà di fare tutto da sè, non solo portando avanti una carriera solista di altissima qualità, ma anche producendo i suoi stessi lavori, fondando la sua etichetta, la Curtom, che pubblicherà inoltre anche i lavori di altri importantissimi gruppi come gli Staples Singers. In quegli anni Curtis Mayfield dà alle stampe lavori come Curtis, Roots, Curtis/Live!, Back To The World, e l'elenco sarebbe ancora più lungo,tutti dischi all'insegna di una musica diversa, lontana anni luce dall'ottimismo propugnato dagli Impressions: la si potrebbe chiamare conscious soul, oppure political funk, nei fatti si tratta di una musica arrabbiata,aspra, forte, adeguata ai tempi che sono cambiati: gli anni sessanta e le loro utopie di un mondo governato dall'ideale di peace & love si sono dissolte come una bolla d'acido, inoltre MLK è stato assassinato, la guerra in Vietnam si apprestava a vivere un'epilogo disastroso, e di lì a poco all'orizzonte si sarebbe affacciato lo scandalo del Watergate: insomma non erano sicuramente tempi facili per i giovani (e non) americani dell'epoca, figuriamoci poi se di colore.
In questo contesto, nel 1972 esce quello che possiamo considerare il più conosciuto disco del soulman di Chicago, Superfly, disco che rappresenta una tappa fondamentale nella sua carriera, in quanto si cimenta per la prima volta in una colonna sonora per un film, anzi possiamo dire che Superfly (insieme a Shaft di Isaac Hayes) è il miglior esempio di blaxploitation soundtrack: per cui pochi che non lo sapessero la blaxploitation (termine derivante dalla contrazione delle parole black e exploitation) è quel genere cinematografico nato negli Stati Uniti degli anni Settanta, rivolti principalmente al pubblico afroamericano, spesso e volentieri caratterizzati da una discutibile qualità artistica, baciati da un breve ma intenso momento di fortuna commerciale, e che, negli ultimi anni, sono stati ripescati grazie anche al successo del cinema "pulp" di Quentin Tarantino. In realtà Curtis Mayfield con questo disco è riuscito a fare ben più che un semplice commento sonoro della pellicola (che narra della storia di un pusher, Superfly appunto, che ambisce a realizzare un ultimo inportante colpo prima di ritirarsi definitivamente), ha realizzato delle vere e proprie istantanee di vita del ghetto, raccontando di droga,sesso,spacciatori,teppisti, temi che saranno cari una ventina d'anni dopo alla generazione del G-rap: il nostro uomo però si terra lontano da ogni compiacimento della bad life tipica dei gangsta, autori nei loro dischi di una vera e propria sorta di "apologia del magnaccia", anzi non mancherà di denunciare e stigmatizzare con fermezza e vivida partecipazione lo sfacelo morale cui sta andando incontro la sua comunità.
Tutto l'album è pervaso da un'atmosfera cupa e grave, da arrangiamenti "obesi" e carichi di pathos, e tutte le tracce meritano di essere citate, brevemente, una per una: sin dall'opener Little Child Running Wild, ci ritroviamo catapultati sui marciapiedi di Harlem: le atmosfere sono dense e cupe, e il connubio tra il tonare del sax e il vorticoso turbinio degli archi non fa altro che acuire questa sensazione di "soul drama" che ci accompagnerà per l'intero disco; il viaggio si farà poi ancora più ecitante con la successiva Pusherman, upbeat funky dall'attacco assassino (I'm your mamma, I'm your daddy, I'm that nigga in the alley, I'm your doctor when in need, want some cooke, have some weed.... I'm Your Pusherman! ), pezzo straordinario, intriso profondamente di umori urbani (grazie a quelle chitarre che sputano sangue), ma allo stesso tempo intimamente tribale (quella selva di congas che richiamano il battito ancestrale di mother Africa).
E ancora il caracollare swingante di Freddie's Dead, che fa da preludio al pezzo più duro del disco, lo strumentale Junkie Chase, che, nonostante la sua brevità (dura appena un minuto e mezzo), con quella chitarra imbizzarrita, l'incessante beat della batteria, il piano che sputa rabbiosamente grappoli di note e i fiati che sembrano suonati da Lucifero in persona, risulta essere più doloroso di un pugno sullo stomaco. Completamente diverse sono invece le atmosfere di Give Me Your Love (Love Song): sono infatti quattro minuti e quindici secondi ad alto tasso erotico, straordinario esempio di soul sexy e lascivo, più torbido di una qualsiasi Let's Get It On, ed è sin troppo banale classificare l'interpretazione di Curtis come "orgasmica".
Subito dopo i sermonici toni gospel dell'accorata Eddie You Should Know Better, ci troviamo di fronte a uno dei vertici del disco No Things On Me (Cocaine Song), pezzo nel quale le atmosfere plumbee che caratterizzano il resto dell'album svaniscono improvvisamente, i toni si fanno più lievi, si apre improvvisamente uno squarcio di sole tra le nubi; anche gli strumentisti trasmettono good sensations (basti pensare a quello sviolinare che richiamano alla mente i successivi lavori della Love Unlimited Orchestra), e Curtis può così orgogliosamente rivendicare la sua indipendenza dall'uomo e la sua cosa, e celebrare orgogliosamente la gioia di vivere come unico e vero sballo naturale (I'm so glad I've got my own,so glad that I can see, my life's a natural high, the man can't put no thing on me), indubbiamente il pezzo più positivo ed ottimista del lotto. Le atmosfere si mantengono leggere anche nel successivo strumentale Think, caratterizzato da soavi, delicati pennellate di clarinetto, nonchè dalle chitarre meno acide di tutto il disco, ma è in chiusura che ci sono gli ultimi fuochi d'artificio: Superfly è un ribollente magma di funk raw & wild, guidato dall'impetuoso cavalcare del basso, ed è il pezzo che rappresenta la summa e la sintesi del Superfly-pensiero (the game he plays,he plays for keeps, hustlin' times and ghetto streets), in un crescendo emotivo che culmina nello straziante, lacerante finale, quel "Trying to get over", ripetuto ossessivamente come un mantra.
Per chi non conoscesse l'opera di questo straordinario artista, Superfly rappresenta una tappa obbligata, non solo della sua carriera, ma della storia del soul e del funk, straordinaria eredità di un uomo, un artista nel quale musica,vita, impegno sociale si sono mescolate in un tutt'uno per regalarci opere che sono piccoli brandelli di storia, non solo della musica, e la cui conoscenza non potrà che farci stare meglio.
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