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R Recensione

7,5/10

Gili Yalo

Gili Yalo

Gili Yalo è un falascia etiope-israeliano. Spieghiamo brevemente: è nato a Gondar, in Etiopia, e quando aveva quattro anni è stato portato a Tel Aviv grazie all'Operazione Mosè, una drammatica iniziativa del Mossad che nel 1984 trasferì circa 8000 etiopi di religione ebraica dall'Etiopia a Israele attraverso il Sudan, causando una mezza strage (fame e malattia falcidiarono un gran numero di profughi). Giunti a tel Aviv, gli “ebrei neri” (che secondo alcuni sono i discendenti di una delle 12 tribù d'Egitto) hanno avuto non poche difficoltà nel trovare spazio in una società tecnologica e moderna come quella israeliana.

La musica di Gili Yalo, già voce dei Zvuloon Dub System, parte dal ricordo di quell'esodo e dal recupero di quelle radici, qui rappresentate dall'uso dell'antica lingua amarica e dalle sonorità tipiche dell'ormai noto ethio-jazz. “Tadese” è una vera e propria matrice del jazz etiope canonizzato da Mulatu Astatke, Hailu MergiaTlahoun Gèssèssè, che esplode nell'esclamazione liberatoria di “Fire” (“There is another pack of us / We want to break these vanity walls”). Il linguaggio di Yalo non è però solo etiope, ma prevedibilmente cosmopolita e transculturale: “Hot Shot” è in sostanza un omaggio al reggae nella sua concezione universalistica di stampo Marleyano, “City Life” è un rock solido e lineare, “Coffee” rispolvera le istanze “in levare” dei Tinariwen più "occidentalizzati” e “Africa” corre il rischio di scivolare del mondialismo poliritmico tanto amato dall'Europa francofona. Ma è dove le radici riemergono prepotenti dal passato che la forza di questa musica dalle mille storie e dalle mie nazionalità trova slancio e definizione: “Selam” è un funk debordante arricchito da tastiere psichedeliche e voci femminili, “Sab Sam” è un rock desertico definitivo e totalmente “black”, come una “Superstition” trapiantata nel caldo torrido e spietato di un campo profughi del Sudan.

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