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R Recensione

6,5/10

Nu Guinea

Nuova Napoli

In un mondo che ha ripudiato per sempre la filologia, questa è senza alcun dubbio l’uscita filologica dell’anno: la più accurata, la più sentita, la meglio suonata e prodotta. La sistematica ed organica rivalutazione contemporanea del Napoli sound settantiano, che prima d’oggi ancora mancava all’appello nella lunga lista di disseppellimenti post-moderni, porta la firma di Lucio Aquilina e Massimo Di Lena, progenie di Partenope da qualche anno di stanza a Berlino. Proprio nel grembo della capitale europea della cultura attecchiscono i primi germi dei Nu Guinea, un’esperienza inizialmente confinata ai formati brevi prediletti dai turntables dei dj set (il 12” omonimo del 2014 e “World” dell’anno successivo) e poi confluita naturalmente nell’interessante mini album “The Tony Allen Experiments” (2016), un lussureggiante cut’n’paste immaginario con il maestro Allen. L’approdo alle fonti ispiratrici di “Nuova Napoli” si completa precisamente in questa progressiva ottica dialogica, come l’ultima delle increspature concentriche provocate dall’impatto di un oggetto su una superficie liquida: i panni dell’interlocutore vengono qui indossati da un’intera città e, nello specifico, dalla sua più nobile tradizione artistica (i nomi, in fondo, li sapete).

Il pregio incontrovertibile di “Nuova Napoli”, anche dopo molti ascolti, sta nell’approccio attivo assunto dai Nu Guinea nei confronti del materiale di partenza: non un trascinare di peso la tradizione ai giorni nostri, ma il tentativo di rielaborarne dall’interno gli assunti e tradurli in un linguaggio – anche e soprattutto sonoro – che renda conto delle sue inevitabili interconnessioni con il mondo odierno. Sulla definizione di questa prospettiva è certo abbia influito la quotidianità berlinese, la cui traccia, non direttamente visibile in superficie, si riflette tuttavia in una serie di importanti dettagli: i sanguigni arabeschi da exotica funk della title track (con le volée chichiane al basso di Roberto Badoglio), le movenze da deep house analogica di “Ddoje Facce” (qui rimpallate dal sax tenore di Pietro Santangelo, dai caldi inserimenti dell’elettrica di Marcello Giannini e da un notevole parco percussioni) e lo spaccato generazionale di “Parev ‘Ajere”, cover della “Mr. Business” dei francesi Edition Spéciale (per il resto, uno dei brani più mediterranei del platter). Particolarmente interessante, sotto il profilo estetico, il ragga-dub intontito ed urbano di “’A Voce ‘E Napule”: non fosse per i vocalizzi dialettali di Fabiana Martone, sarebbe difficile non prenderla per una produzione internazionale.

Fino ad ora tutto bene. Le noie, se di noie proprio vogliamo parlare, cominciano nel momento in cui si seziona più da vicino la scrittura di Aquilina e Di Lena, in termini non di realizzazione (pratica) ma di costruzione (teorica): qualche appunto al merito – con l’obiettivo di tendere, nel prossimo futuro, ad un prodotto davvero inappuntabile – lo si può e lo si deve muovere. Il concerno principale sta nella percezione di una certa correlazione tra stratificazione delle sezioni strumentali e solidità strutturale di un brano: quanto più si aggiunge da una parte, tanto più manca qualcosa da quell’altra. “Je Vulesse” – il cui testo è adattato dal poemetto Je Vulesse Truvà Pace di Eduardo De Filippo – ne è il perfetto esempio: la solita Martone gorgheggia ad altezze altalenanti, accompagnata da tappeti esotici di percussioni, stridenti archi sintetici e chiose jazz-fusion. Un po’ troppo. L’effetto kitsch si duplica in “Disco Sole”, dove l’entrata a gamba tesa delle backing vocals in falsetto spariglia gli equilibri di una jam lanciata in una gustosa variazione su tema principale da progantautorato anni ’70 (chissà perché, ma viene in mente Battisti). Originali sono, poi, le ombreggiature che piovono oblique sul rifrangente riff di tastiere anni ’80 del disco-funk super groovy di “Stann Fore” (ritornello killer), ma la sensazione che Aquilina giochi a fare il tardo, sbracato Herbie Hancock è difficile da allontanare. Tre brani su sette, in meno di mezz’ora: non poco.

Si può questionare sul fatto che sempre di dettagli si parli, di piccolezze non in grado di alterare significativamente il risultato finale: e questo è sicuramente vero. Vero è anche il fatto, tuttavia, che sono i dettagli a tracciare la linea invisibile tra i buoni e gli ottimi dischi, tra le uscite standard e i grandi capolavori. I Nu Guinea hanno tutto per saltare dall’altra parte: per quanto questo possa suonare impopolare, tuttavia, per il momento rimangono ancora fermi qui.

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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zagor 7/10

C Commenti

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zagor (ha votato 7 questo disco) alle 22:54 del 29 agosto 2018 ha scritto:

carino dai, un piacevole pastiche jazz/funk/afrobeat che unisce la Napoli anni 70 a sonorità baleariche moderne. Disco perfetto per un drink in riva al mare mentre i ggggiovani si scatenano in danze tribali. Ottima recensione, Marco.!