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R Recensione

7/10

Savana Funk

Bring In The New

Esteta e intellettuale, formalista e strutturalista si incontrano ad un crocicchio e cominciano a scrutarsi in cagnesco: da che parte pende la ragione, e perché? Il primo vi dirà che la vita sfugge in un batter di ciglia, e tanto vale lanciarsi all’inseguimento dell’appagamento dei sensi: il secondo controbatterà velenosamente che nella ragione – e nell’elaborazione anche di ciò che ad un primo sguardo appare bellissimo – si sublima il senso dell’esistenza umana. Seguirà il terzo: non v’è movimento senza incasellamento, azione senza rappresentazione. Quanto al quarto: lotta dura, senza paura, ma nella struttura. In ordine, allora: una vorticosa jam hard funk straight in the face per la gioia del primo (“Old School Joint” ha un groove micidiale), torbida sensualità trip hop e oleose svisate noir per il secondo (“Hip Latin”), al terzo il gustoso omaggio Los Cubanos Postizos che, nella title track, fa capolino tra stille di Hammond (suonato da Nicola Peruch), bollenti percussioni (cortesia di Danilo Mineo) e velenosi pendolini funk. Ah sì, manca ancora il quarto!, a lui l’onore dello strumentale biografico, l’irrefrenabile ed irresistibile ottovolante afro di “Zahra” (che, prima di lanciarsi in un’adrenalinica coda a cento all’ora, fa pit stop all’ombra di bassi dub e scansioni ragga).

Prima di adottare la ragione sociale Savana Funk (monicker forse telefonato, ma del tutto rappresentativo) è possibile che li abbiate incrociati, un paio di dischi fa, come Aldo Betto w/ Blake Franchetto & Youssef Ait Bouazza. Non che la sostanza cambi più di tanto: sempre un tornado ipercinetico rimane, un power trio di virtuosi che fa man bassa dei ritmi d’oltreoceano, raccoglie spezie e profumi del vicino Oriente, vi incorpora suggestioni del Mediterraneo nordafricano e le rielabora con gusto iconografico tutto italiano. Certo, “Bring In The New” a conti fatti un corno, ma chissà se c’è davvero qualcuno a cui importasse davvero. Convincenti, rispetto al passato, anche nei lenti (“’Till Dawn”, ancora tra Ribot e la Downtown degli anni ’70, pulsa di un melodismo quasi morriconiano: merito anche dei twang della chitarra aggiunta del Sacri Cuori Antonio Gramentieri), un po’ meno negli episodi cantati (Chris Costa sia nel frizzante ragga-surf in levare di “The Walls Of The Shy” che nel non imprescindibile urban meticciato di “Radio, You Break My Nose”): una versatilità assoluta, a patto di accettare il tacito accordo delle influenze esplicitate a ogni pie’ sospinto.

Come dite, laggiù? Volete sapere che tipo è il recensore? Il quinto…

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