Soul Coughing
Ruby Vroom
Ho vissuto stagioni intere lungo le strade di Milano. Di solito, ci andavo la domenica, in estate, in zona Porta Garibaldi: un mare di asfalto fumante circondava palazzoni in serie color ocra sbiadito, distese di murales variopinti, carrozze arrugginite. La voce della metropoli vibrava nell'aria, i suoi grattacieli eternamente in fieri provavano a fare il solletico alle stelle.
Non era centro, non era periferia : tutto oscillava a mezz'aria, come un cuore pulsante.
I Soul Coughing sono il respiro profondo della metropoli: e siccome Milano è un po' la New York italiana, li associo da sempre a queso funambolico e grigio immaginario post-urbano. Probabilmente, devo solo elevare i mieri ricordi al cubo (come minimo), per avere un'idea della realtà che ha partorito questa esplosiva miscela post-black, radicata nel clima fumoso e frenetico della Grande Mela.
L'Anima che tossisce afferra il chaos, trasfigura codici e significati di origine controllata in un collage sonoro originale e sfilacciato. Il sound disarticolato e sovraccarico di idee, in realtà, è figlio di una complessa, laboriosa stratificazione, che tradisce le ambizioni colte della band.
La materia prima la offre la metà nera dell'universo: scratch hip-hop frastagliati, basso che sprofonda fra le sabbie mobili del funk, una forma di espressionismo dilatata che richiama l'arcobaleno del free jazz.
Ma non basta. I Soul Coughing sono figli dei salotti buoni di New York, o forse sono hipsters che stuzzicano la gente rintanata in questi salotti. Osservano il mondo attraverso una lente antagonista che consente di spogliare la realtà da ogni sovrastruttura.
I Soul Coughing portano gli interrogativi furiosi impliati dall'hip-hop e dalla musica nera più radicale dentro schemi concettuali legati a doppio filo con la cultura alternativa del Greenwich Village. Il materiale nero diventa pongo da plasmare per alterare geneticamente ciò che è bianco: i Soul Coughing sono i fratelli minori di Mark Stewart e del Pop Group.
Il loro post-funk sgraziato si rivolge alla mente, più che al corpo: vuole far ballare i nostri neuroni, inondarli di rumori bislacchi per svegliarli dal torpore.
I Soul Coughing hanno ridimensionato la ferocia politica dei ragazzi di Bristol, ma la rabbia in sé non si è stemperata, ha solo alterato i connotati: i newyorkesi conducono un'analisi spietata dei meccanismi che governano le relazioni umane dentro quel caleidoscopio di luci che è la Città.
Il sound è pulsante e aerodinamico, miscela giri di basso scolpiti nella pietra, complessi solo degli strumenti a fiato, titinnanti tastiere elettroniche, una chitarra tenuamente rumorosa, geniali sample futuristi. Tutto si fonde in un tappeto che consente a Mike Doughty di imbastire racconti che oscillano fra la declamazione filosofica e la poesia metropolitana. Mike è un assemblatore di immagini che colgono sempre nel segno.
"Is Chicago, Is Not Chicago" è il geniale preludio, tratteggia subito scenari da megalopoli in decadenza: la batteria scalpita agile e sorniona, basso e chitarra duettano asciutti, Mike mostra un repertorio lessicale e immaginifico di prim'ordine. Il ritmo è pulsante contagioso, e lo stesso vale per "Casiotone Nation". Il basso sinouso gira e rigira introno al centro del mondo, Mark Degli Antoni esibisce un'immaginazione fervida stratificando echi suggestivi della metropoli e note deturpate di sassofono. Il finale in crescendo sfuma verso l'universo industriale, giusto due passi dietro il cannibalismo dei Vampire Rodents.
Oltre a "Is Chicago", i pezzi da tramandare ai posteri (pur non essendoci riemptivi: alla fine, tutti meritano un ascolto attento) sono almeno due: "Sugar Free Jazz", esplosiva ("and it booms as sugar free jazz"), costipante come il funk, ariosa come la musica improvvisata; e quindi "True Dreams of Wichita", che mette in sordina gli effetti spettacolari di Antoni per imbastire un fraseggio melodico vero e proprio: il funk si dilata fino a sfumare in una forma di jazz-pop filosofico senza precedenti.
Il testo trabocca fascino urbano oscuro e meditabondo: "Brooklyn like a sea in the asphalt stalks/ Push out dead air from a parking garage/ Where you stand with the keys and your cool hat of silence/ Where you grip her love like a driver's liscense/ I've seen you/ Fire up the gas in the engine valves/I've seen your hand turn saintly on the radio dial/ I've seen the airwaves / Pull your eyes towards heaven/ Outside Topeka in the phone lines/ Her good teeth smile was winding down/ Engine sputters ghosts out of gasoline fumes/ They say You had it, but you sold it/ You didn't want it, no/ I'm half drunk on static you transmit/ Through your/ True dreams Of Wichita"
La città ti respira sul collo, e Mike cattura la sua immane claustrofobia, scovandola nei luoghi più usuali: il garage di casa, sommerso dai fumi del gasolio, dove ti nascondi con le chiavi e il tuo cappello di silenzio. Solo i tuoi sogni possono salvarti, se sono veri (e possono esserlo? Per Mike, a volte, sì).
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