Dargen D'Amico
Di Vizi Di Forma Virtù
Il rap per me è dire cose in cui non credi su una musica non tua (Dargen D’Amico)
L’ hip hop. Non come fine ma come mezzo. Se ne parlava un paio di settimane fa su queste colonne (vedi: The Streets). E l’Italia non fa eccezione: il rap “mogoliano” degli Amari, quello sperticato e camuffato del primo Bugo, quello da commedia all’italiana degli Inquilini, ad esempio.
Ma questo è un caso a parte. Dargen, al secolo Jacopo, D’amico se da un lato ha legami più solidi con la nobile arte dei quattro elementi (storico freestyler, militanza nelle Sacre Scuole, importante realtà della nuova scuola milanese, a fianco dei futuri Club Dogo, partecipazione a compilation di genere come Salvation Army parte 1), dall’altro se ne sta su un’isola tutta sua: troppo camaleontico e cosmopolita per essere solo un rapper (“faccio musica marginale/ perché sono nato emarginato/ sono troppo cerebrale/ per uscirne arricchito e celebrato”), troppo freak e foto fobico per essere pop (“ e se dico che scrivo perché sono un fallito/ diranno che voglio diventare un antidivo/ Kurt Cobain redivivo…”), troppo elettronico e sintetico per essere un cantautore (“non sarà un disco a cambiare il mondo/ e soprattutto non sarà il mio/ se non l’ha cambiato Dalla con Com’è profondo…”).
Il risultato è un kolossal senza precedenti, almeno nel nostro paese. Due volumi, 35 pezzi, sei produttori, addirittura. Un’arnia di musica elettronica che racchiude modanature dub, sciabolate electro-pop, armonie synth wave, scampoli di “spaghetti funk”, scrosci cyber dance alla Daft Punk,che veicola un’ imago mundis in cui la precarietà - pandemia del nostro tempo, virus silenzioso di un occidente che si espande a vista d’occhio ben oltre il suo punto cardinale (“chi non vede non ha sete di conquista/ il possesso occidentale è limitato dalla vista”)- da sacrificio individuale diviene parabola cristologica, invocazione laica sempre in bilico fra salvezza e suicidio (in un interessante parallelismo sotteso con Amen dei Baustelle).
E poi c’è il Dargen poeta che intreccia verità e finzione (Pubblicittà), acidi flash sul presente (Low Cash, Il Cielo dei Ricchi) e candidi ricordi d’infanzia (Arrivi, Stai Scomodo, Te ne vai, Ci Ricamo Sopra, Al Meccano), riflessioni metalinguistiche sull’essenza e la tecnica della scrittura in metrica (Il Rap Per Me, La Divisione del Lavoro, Come l’Italia e San Marino), squarci d’umorismo surreale e slanci metafisici (Limitato Dal Poeta).
Un impetuoso e disarcionante rodeo in cui il flow metropolitano incontra la canzone d’autore ( nel solco dei grandi clochard della lirica, del cabaret esistenziale, da Piero Ciampi a Enzo Jannacci), il grottesco corteggia il ridicolo, il sublime il banale, la speranza la rassegnazione. Una coincidenza di opposti, un gioco di specchi in cui, fra immagini reali, divertissement concettuali, confessioni e fantasia, si riflette un’intera la generazione (Dargen, come chi vi scrive, è classe 1980) prigioniera dell’incertezza, costretta nella ragnatela di un futuro che “anche se dite no, so che si può”. Costretti a difendere giorno per giorno il nostro diritto di esistere, come scrisse tanti anni fa Luigi Tenco.
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