V Video

R Recensione

6/10

Eminem

Recovery

You dream of trading places, I have been changing faces/ You cannot fill these shoes, there is too much to lose/ Wake up behind these trenches, you run around defenceless/ There is too much to lose, You cannot fill these shoes

Potrebbe essere nell'inciso di Almost Famous, uno dei brani più interessanti del nuovo Recovery, la descrizione che calza alla perfezione quest'ultimo lavoro e quest'ultima parte dell'epopea musicale di Marshall Mathers III, in arte Eminem. Uno che è stato lodato da un premio Pulitzer (Bob Dylan) e da un premio Nobel (Seamus Heaney) per la straordinaria energia lirica ed espressiva della sua poetica (certo, poetica pulp, estrema, per stomaci forti, va da sé che non stiamo parlando di Leonard Cohen o del Dolce Stil Novo, ma pur sempre poetica), che è stato molto bravo a vendersi alle masse nei panni di un personaggio, anzi di una triade di personaggi (Mathers, Eminem, Slim Shady), ed è diventato, grazie allo scandalo suscitato e all'abile strategia mediologica, una delle popstar più controverse e acclamate del nuovo millennio. Un immaginario legato alla sovraesposizione della propria finto-vera persona che spesso ha fatto passare in secondo piano tutto il resto. Meriti testuali e musicali in primis. Fino a restarvi intrappolato ed essere costretto, alla soglia dei quarant'anni, a fare ancora il ragazzino psicopatico, il Michael Myers del rap (in uno dei versi più folgoranti e autoironici del nuovo album ammette: “I'm not even Austin Powers, how tha fuck could i be Mike Myers”), il cartone animato vivente (come disse di sé una volta, in uno dei suoi momenti di geniale metalinguismo: “I'm a 26 years old skinny Eric Cartman”). Incapace di uccidere il proprio degenerato Ziggy Stardust per diventare ciò che, in potenza, potrebbe essere.

E vabbè, pazienza. Rassegniamoci allora a recensire, semplicemente, l'ultima fatica di questo geniale e irritante Joker al crocevia fra rap e pop-rock, un album che, nonostante il titolo cambiato in corsa (da Relapse 2 all'attuale), rappresenta, né più né meno, la seconda facciata del precedente Relapse (2009), dilazionata nel tempo soprattutto per ragioni commerciali (e a quanto pare il macchiavello ha funzionato, dato che Recovery è subito balzato ai primi posti delle classifiche americane cosa che non succedeva da tempo all' Mc di Detroit). Eppure Recovery differisce dal precedente anche dal punto di vista stilistico: se infatti Relapse pretendeva di ricreare in vitro il suono oldschool dei due LP ed era principalmente incentrato sulla figura di Shady che ne diceva di cotte e di crude ma senza mai recuperare il mordente che fu, Recovery è un album musicalmente più ricco, curato, quasi patinato, attraversato da una chiara vena melodica, che macina ritmi duri e possenti in una più diffusa caratterizzazione pop/rock (campioni tratti da Black Sabbath, REM, dai girl group anni 60, dalla colonna sonora di film cult come l'horror-dark “Ragazzi Perduti”). Col Dr Dre relegato al ruolo di supervisor e un manipolo di produttori di successo abili nel trattare questo genere di materia, il risultato è sempre meno nero e sempre più bianco, sempre meno hip-hop e più pop. A parte questo aspetto, che a qualcuno farà storcere il naso, il disco nel suo complesso funziona decisamente meglio del precedente.

Ci sono brani che finiranno direttamente in alta classifica come il singalong di Cold Wind Blows, ben congegnata, peraltro, sul genere cabaret-hop eminemiano, l'urban di Talkin' To Myself, il singolo sfacciato Not Afraid, l'imbarazzante No Love col sample di What Is Love di Haddaway - che solo chi ha l'età per ricordarselo sgambettare come un insegnante d'aerobica al Festivalbar nei primi 90 può capire lo shock - e perfino una sorta duetto sulle pene d'amore con Rihanna (i due, d'altronde, di botte date e prese e di casini coi rispettivi partner n'intendono) I Love The Way You Lie. Per il resto, Mathers dà fondo a tutto il suo repertorio con una varietà di spunti a tratti anche piuttosto felice (rispetto alle ultime uscite, almeno): come nel funk gotico prima maniera di On Fire, ad esempio, o nell'energico rap ultrasincopato su base hard-blues di Won't Back Down (nel ritornello si rivede anche Pink, la cicciottella ex punkette di Lady Marmalade), nel vaudeville rap di So Bad e dell' Untitled conclusiva (fighissimo l'uso del coretto vintage da You Don't Own Me di Lesley Gore), in quella sorta di balordo ma trascinante stomp sintetico che è Cinderella Man, nel numero cinematico, quasi un rap musical, di quella Almost Famous che citavamo in apertura, e persino nelle due power ballad Going Through Changes e Space Bound (basate, rispettivamente su Changes dei Black Sabbath e Drive dei REM).

Un disco godibile, da ascoltare senza impegno nelle pause di quest'estate balneare. Ma dall'autore, quello che sta dietro al personaggio o ai personaggi, quello che ha scritto brani come Rock Bottom, Bonnie & Clyde '97, Stan e Lose Yourself ci aspetteremmo molto di più.

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 3 voti.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5

C Commenti

C'è un commento. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

hiperwlt (ha votato 5 questo disco) alle 22:47 del 7 luglio 2010 ha scritto:

lontano anni luce dai tempi di "guilty conscience" e di "the way i am", sebbene appaia lapalissiano il passo in avanti compiuto dal fumoso relapse. di pezzi apprezzabili ce ne sono ("cold wind blows", "going through changes","so bad"), oltre ad una vera perla ("on fire"): il resto è, tutto sommato, prescindibile e superfluo. poco, da troppo, per un talento come il suo.