R Recensione

8/10

Kaos

kARMA

A.D. 2007. L’attacco dei cloni è stato respinto. La milizia dei mercenari scompaginata. Ai (direttori) generali i conti non tornano. La gioiosa macchina da guerra sembra essersi inceppata. L’onda d’urto infranta contro l’arida battigia della sua stessa superficialità: progetti rap buttati giù a tavolino, figuranti con la faccia giusta per il casting, prelevati alle jam o nelle stazioni della metro, produzioni con budget e inferenze non proprio indipendenti, munizioni mediatiche e mire espansionistiche da multinazionali. La legge marziale, in questi casi, è implacabile: per ogni Fabri Fibra almeno dieci Mr. Antipatia. L’ex cittadella dell’ “ippoppitaliano” ridotta a qualche brandello di muro, gli sciacalli che sciamano ovunque e rubano, bivaccano, trafugano. La sconfitta (forse) porta con se una consapevolezza: questa (graziaddio!) non è l’America, ne mai lo sarà. Ma del senno del poi, si sa, son piene le Posse.

Non c’è che dire, dal suo scosceso eremo d’asceta e guerriero, oscuro avamposto nelle resistenti tenebre della solitudine, Marco Fiorito, alias Kaos One, alias Don Kaos, o più semplicemente Kaos, ha di che contemplare soddisfatto e disgustato il campo di battaglia, constatando l’avverarsi, una dopo l’altra, di tutte le sue più nefaste previsioni.Su di lui, Jedi/Vampiro, gran cerimoniere dell’hardcore, pirata del rap nel mondo di sotto sul cui pennone non sventola più alcun vessillo (neanche la bandiera nera, quella col teschio o con la A cerchiata di rosso), non serve spendere altre parole, basta la sua discografia: Radical Stuff , La Rapadopa e 0s3ss (con Dj Gruff), i dischi solisti Fastidio (1996) e L’attesa (1999), gli arrembaggi suburbani di Melma & Merda (con Deda) (2001) e Neo Ex (con Gopher)(2002), un pezzo di storia della musica alternativa vista dall’antro dei Morlock.

kARMA (Trix Shop Bologna, 2007), prodotto da Di Trix, è l’ennesima (forse ultima?) testimonianza del suo talento, della sua lucidità e della sua coerenza, qui il Don adatta ma non adagia il suo death rap (coniato nel decennio scorso in Fastidio, forse la più grande invenzione nazionale nella storia di questa musica) sulle basi scaltre, barocche e un po’ ridondanti di beatmakers del nuovo millennio come Don Joe e Dj Shablo. Già l’intro, sulfurea su fraseggi di piano quasi shuffle, ne chiarisce lo stato d’animo: “Sai che ti dico? Altro che vecchio, sono antico / e dando retta allo specchio sto guardando un fallito / tipo, non ho sentito, è a me che stai parlando? / o stavi aspettando il tuo rapper preferito?”. Un samurai che non ha mai abdicato ne ha permesso che il tempo e gli stenti lo tramutassero in ronin. L’Uno è anche la sua stirneriana “proprietà”: gli accenti che si abbattono sul beat come chiodi ferali, le sillabe tonali tese allo spasimo, strette nel ruggito di una chiostra di denti affamati, le pause, una sospensione momentanea in cui dolore e disprezzo si dilatano per sgorgare nelle rabbiose sevizie del flow. In fondo al viale del tramonto il Dr. K. affonda il suo bisturi nei cuori infranti in plexiglas del rap solare e mediterraneo. La zona morta allunga il ciclo delle sue allegorie “kinghiane” (dopo Cose preziose e La tempesta del secolo) , dando forma all’incubo generalista di un’Italia torturata a morte in diretta tv, uno snuff movie nazionalpopolare in prima serata. 

Ne Il sesto senso il Don riesce a farsi perdonare persino il recupero del sample di “Profondo rosso” e il magro contributo dei solitamente validi Club Dogo (qui al minimo storico). Pandemia è il più clamoroso affondo irreligioso e anticlericale dai tempi de Il testamento di Tito, con versi che ti entrano in testa anche quando vorresti cedere alla tentazione di tapparti le orecchie, “è inferno sulla terra o è paradiso artificiale / (…) e sul breviario c’è scritto: beato l’emarginato / ma sul suo sudario è nato un tempo dorato”, e un ritornello che potrebbe essere pronunciato dallo Stavroghin de “I Demoni” (“quanto è distante questa croce ch’è in bilico / darci il veleno e ricattarci con l’antidoto”). Nonostante qualche fastidioso svolazzo di synth, Mu-sick fa delle tigri di carta dell’industria discografica una pira funeraria (“Mettila sul ridere mi sa che tanto è l’unica / ma non sta a te decidere il valore di ’sta musica / non puoi capire questa musica, se non hai amore per ’sta musica/ puoi solo uccidere ’sta musica”) e concede a Turi, inarrivabile giocoliere di strada,lo spazio per sfoderare un paio di numeri a base di colpi di mortaio (“la vittima è la musica e io so chi la sevizia / anche se il testimone si ritrova dentro un sacco d’immondizia”).

Per chi avesse già scordato Luigi Tenco, Rino Gaetano e tutti gli altri omicidi/suicidi: mandanti gli Shylock delle sette note. Algoritmi rincara la dose e Firewire (con la partecipazione del Colle der fomento), sbrana l’ipocrisia e l’imago mundis disumana di una dittatura del web (non per niente il pezzo ruota attorno ad alcuni inserti live che contrappongono il calore umano di un rituale collettivo alla freddezza impersonale della telematica). Blah Blah, su una delle basi più scabre e taglienti dell’album, raccoglie quella che è forse l’invettiva definitiva della sua carriera e che già basterebbe ad incastonare il suo nome nella leggenda, invece, dopo l’istrionico monologo di Moddi in DCDV arriva Insomnia. Stephen King sovrintende ancora a questo capolavoro, un dipinto sabbatico del Bosch scolpito tra le sinapsi industriali dell’uomo schizoide del 21mo secolo, lo stadio terminale del suo pessimismo cosmico, il prisma gotico e grottesco con cui Kaos guarda al mondo e si scruta dal di dentro. Come in Epicureo, poiché il male esiste, Dio esiste, ma non si interessa dell’uomo e allora “quando il male è il solo modo per descriverlo / tocca viverlo in tempo reale e poi scriverlo / oppure inciderlo ma in modo permanente / dividerlo tra chi lo ascolta ma non lo sente / perché stanotte niente è come te lo aspetti / in fondo tu cammini con me come gli spettri”.

A questo punto, se davvero lo state ascoltando, avrete bisogno di fermarvi a riprendere fiato con l’inevitabile remix de Il sesto senso, per lasciare al Nostro il tempo di comporre il suo epitaffio, l’epigrafe con cui vorrebbe essere ricordato in La fine.

Tu mi presenti Joe Black, io vi presento Marco Fiorito.

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Voto degli utenti: 8,4/10 in media su 8 voti.
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REBBY 5/10
Dusk 8/10
kaos 1 10/10

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