Kendrick Lamar
Good Kid, M.A.A.D. City
E poi c'è il disco di Kendrick Lamar. Nome nuovo dell'hip hop losangelino, esponente di punta del collettivo Black Hippy (oggi rinominatosi Top Dawg Entertainment), stretto collaboratore di loschi figuri del calibro di Schoolboy Q, Ab-Soul, Jay Rock. Sigle che certo diranno ben poco ai non adepti, ma che di fatto stanno ormai ritagliandosi un posto di rilievo nella topografia della musica afroamericana contemporanea, spostando i riflettori del midstream (e, auspicabilmente, di fette di pubblico ancora più ampie in futuro) su un circuito west coast oggi in evidente ripresa, capace se non altro di scalfire, a livello di organizzazione e credibilità artistica, il monopolio commerciale del southern rap e della grande imprenditoria newyorchese.
E' evidente che un simile successo dal basso, non mediato cioè da un'industria discografica tradizionale ormai ai suoi minimi storici (la stessa che oggi si affretta ad acquisire i pacchetti azionari Lamar e Frank Ocean, per citare solo due tra i più affermati, cercando di ricavarne qualcosa di simile a un profitto, in tempi di magra come questi), poggia innanzitutto sull'adesione a tendenze che, in linea di massima, potremmo definire di marca hipster e dintorni: dimensione social, ridefinizione spesso disinvolta e spregiudicata dei codici tradizionali, assunzione massiccia di sostanze psicotrope e conseguente allineamento ai moduli rarefatti e liquidi dell'emergente cloud rap, registro espressivo che attinge istintivamente alle dinamiche del 2.0 e le fa proprie, trovando poi nei circuiti internettari una corsia preferenziale di comunicazione e fruizione. E però, a differenza di altri più e meno noti colleghi di analoga provenienza geografica (pensiamo in primo luogo al giro Odd Future di Tyler the Creator, ma anche ai più defilati Main Attrakionz o a personaggi certo poco raccomandabili come Lil B, tutti situati nella Bay Area), nel giro Black Hippy queste nuove istanze vengono debitamente smorzate in una formula a mio avviso più consapevole e studiata, che mantiene intatta la fisionomia della tradizione black senza stravolgerla in proposte raffazzonate e di breve respiro, ma valorizzandone anzi i contorni e riallacciandosi esplicitamente ai più nobili modelli di genere.
A voler tracciare un albero genealogico di possibili riferimenti e influenze, e dando per scontate le affinità elettive che avvicinano Kendrick Lamar a Dr. Dre (il quale peraltro supervisiona l'intero progetto Good Kid, M.A.A.D. City), la ramificazione che più spicca per analogie e corrispondenze cromatiche ci porta dritti al primo Kanye West, quello più intimista e sottilmente paranoico di episodi come Addiction o Roses, o persino quello dei campionamenti soul a giri sbagliati che connotavano in modo inconfondibile la trilogia del college e che qui ritroviamo in un pezzo, Poetic Justice, scritto in comproprietà con Drake e rifinito da voci femminili che accompagnano il rapping in un alveo di accoglienti e delicate inflessioni analogiche. E se lo stesso Drake rappresenta un altro modello a cui è forse inevitabile ricollegarsi, non tanto nella sostanza strettamente musicale ma piuttosto per ciò che riguarda la cadenza di rime e metriche (con quello stile, tipicamente attuale, che frammenta l'esposizione in un profluvio di considerazioni, ripensamenti, autocorrezioni e piglio introspettivo da blog-era), leggendo bene in filigrana emergono persino sfumature che non fatichiamo a ricondurre agli Outkast di prove come Aquemini, quelli cioè meno esuberanti e maggiormente inclini a un'idea moderna di psichedelia nera, attraversata da essenziali ricami jazzy e campiture tonali scure e ipnotiche. Provate ad ascoltare, ad esempio, il refrain di Money Trees, o ancora le voci manipolate di Bitch, Don't Kill My Vibe (con quei pigri giochi di luce che fanno capolino qua e là, affiorando splendidamente in superficie nel finale), e ditemi se non potrebbero rientrare a pieno titolo nel bouquet dell' Andre 3000 più ispirato.
Dall'insieme di queste esperienze germoglia e fruttifica il suono di Kendrick. Una polpa matura e saporita, per quanto è poi la ricetta finale, più che gli ingredienti di base, a spiegare la specificità e l'originalità di questo disco. L'avrete intuito dal sottotitolo: l'intero lavoro è felicemente strutturato a modo di una vera e propria opera cinematografica, in cui le immagini evocate e l'impianto concettuale che informa e nutre i singoli capitoli hanno un ruolo predominante nel definire il quadro di insieme. Il legame territoriale con Los Angeles, microcriminalità e rapporti familiari, educazione sentimentale ed etica del successo, sono questi alcuni dei gangli tematici da cui si dipana una trama certo non originalissima nelle premesse di fondo (l'ostinata ricerca di una via di uscita dai vicoli ciechi del ghetto e dalle sue tentazioni), ma eseguita in maniera quantomai complessa e stratificata, laddove i ricordi autobiografici dell'autore e della sua adolescenza nelle strade di L.A. si confondono e sovrappongono a sue considerazioni attuali, dando vita a una sorta di esistenzialismo da era-Obama straripante di contenuti e riflessioni.
Nondimeno, una costruzione formale così vincolante rappresenta oggi una scelta senz'altro coraggiosa per un prodotto major: in primo luogo perchè, banalmente, sarebbe bastato assemblare alla rinfusa un'accozzaglia di brani di sicura presa per cavalcare l'onda lunga dell'hype, generata dall'ottimo esordio Section.80, che l'anno scorso aveva fatto schizzare alle stelle le quotazioni di Lamar sui bollettini ufficiali del mercato discografico statunitense. Ma è soprattutto la costruzione progressiva del racconto a scoraggiare l'ascolto distratto e occasionale: a differenza di molti altri concept, dove il tessuto narrativo di base è poco più che un'indicazione generica per lo svolgimento dei singoli episodi, GKMC non catapulta l'ascoltatore in medias res ma piuttosto lo accompagna per mano lungo il corso degli eventi raccontati, dai titoli di testa di Sherane in poi, montando una tensione drammaturgica lenta e graduale, seguendo il ritmo biologico di una periferia urbana indolente e dissoluta. Alcuni dettagli, alcune inflessioni stilistiche, minuzie che in un primo momento possono sembrare insignificanti, rivelano il loro significato intimo solo quando il disegno complessivo è ormai chiaro, e ad ogni riascolto anche le pieghe più impercettibili finiscono con l'arricchire l'opera di nuove sfumature.
Intendiamoci, le canzoni di GKMC godono comunque di una loro autonomia, splendendo di luce propria anche a prescindere dal canovaccio in cui sono rigidamente incapsulate. Ma del resto, perchè precludersi una lettura approfondita e ragionata del lavoro nel suo insieme? Avrebbe senso rinunciare ad una impalcatura narrativa di tale portata e ampiezza, quando da questa germinano e si sviluppano alcune delle soluzioni formali più avanzate sia dato ascoltare nel loro genere? Alcuni brani, in particolare, si avvalgono di sviluppi imprevedibili e colpi di scena a ripetizione, costretti come sono a sdoppiarsi e a cambiare abito in corsa per seguire il flusso dei ricordi o per far fronte al susseguirsi degli eventi raccontati: è il caso di m.A.A.d city, in cui una prima parte più convenzionale (simile per esecuzione alla Mercy di Kanye) dopo una breve dissolvenza accelera improvvisamente per le strade di Compton, L.A., tra bombardamenti funk a tappeto e rapidi intarsi chitarristici, macinando rime a getto continuo con l'appassionata partecipazione del veterano Mc Ehit. Nella meravigliosa The Art of Peer Pressure, invece, quella che inizialmente si qualifica come una rigogliosa jam corale nel breve volgere di un'inquadratura sfocia in un pezzo dai toni introspettivi e dimessi, fotografando attraverso questo contrasto prospettico i conflitti interiori dell'autore; basta un abile utilizzo del controcampo per riprendere la vicenda narrata (l'incontro di Kendrick con la sua gang) da due angolazioni opposte e complementari, dove gli atteggiamenti esteriori e di facciata delle dinamiche di gruppo stridono con le intime riflessioni del protagonista, costretto suo malgrado in convenzioni sociali che non riesce a condividere.
Tutto il disco è percorso da simili espedienti, piccoli accorgimenti che conferiscono spessore e tridimensionalità al racconto. E Sing About Me, I'm Dying Of Thirst è forse il brano concettualmente più ambizioso in questo senso, con l'io narrante che si smaterializza in una molteplicità di personaggi e punti di vista, dando vita a un affresco corale di sofferenza e tragedie private, fragili vite umane che si rincorrono sullo schermo e scompaiono all'improvviso, abbandonate al loro destino o brutalmente stroncate dall'insensato gioco delle guerre di quartiere, con Lamar che nel finale tira le fila del discorso e lo conclude in un limbo di echi ultraterreni. Sbrogliare nel dettaglio questa fitta matassa di intuizioni e soluzioni creative sorprendenti è impresa proibitiva, se non inutile: sarà meglio lasciare al lettore il piacere di indagare l'universo di GKMC in ogni sua sfaccettatura, se lo vorrà, orientandosi come più gli è congeniale in questa ridda di voci accelerate e distorte, sogni di grandeur di un adolescente di provincia (Backstreet Freestyle), dialoghi con la propria coscienza (la seconda strofa di Swimming Pools è esemplare) e quant'altro sostanzia il composito e affollato universo della mad city.
Vale comunque la pena sottolineare come una materia tanto eterogenea per riferimenti musicali e testuali trovi qui una sua perfetta quadratura, livellando e smussando i tratti peculiari dei variegati registri stilistici adottati in una foggia sonora compatta, organica, ben riconoscibile. Con l'unica eccezione di Backseat Freestyle, le cui movenze gangsta-rap al limite del grottesco e del caricaturale forse stonano un po' col resto, il disco scorre in maniera assolutamente fluida, evitando per quanto possibile di impaludarsi in quel citazionismo un po' vacuo e inconsistente che penalizza molta black music attuale (a mio parere, un limite di cui neanche il tanto celebrato "Channel Orange" era del tutto esente). Merito sicuramente di Dre, produttore esecutivo del lavoro, perfettamente a suo agio nel coordinare la solita processione di beatmakers e tecnici del suono di prima scelta (Hit-Boy, Pharrell Williams, Just Blaze, T-Minus tra gli altri), amministrandoli con la sapienza di chi, ormai vent'anni fa, ha contribuito in modo determinante a forgiare il suono caratteristico della west coast. E Dre sigilla poi il disco partecipando alla traccia conclusiva, la marcia trionfale di Compton: pura epica di strada distillata in un raggio accecante, il momento perfetto, quello in cui tutte le trame e sottotrame in cui si articola l'odissea psicologica e morale di Kendrick raggiungono il loro definitivo compimento, lì dove tutto era iniziato.
Ci sbilanciamo volentieri: Good Kid, M.A.A.D. City, per caratura e spessore, è perfettamente degno di sedere alla destra di "Illmatic" e "The College Dropout", nell'empireo dei classici che segnano un'epoca e dettano le loro regole e condizioni a tutto l'hip hop a venire. Un disco che, en passant, si permette il lusso di escludere il tormentone sotterraneo The Recipe dalla scaletta ufficiale, confinandolo nel limbo delle tracce bonus per la versione deluxe. Scelta che non condividiamo, perchè il brano si sarebbe integrato alla perfezione con gli umori più accessibili e pop del progetto, ma che comunque testimonia la volontà di non intaccare gli equilibri delicatissimi della narrazione, calcolandoli al millimetro, anche a costo di dolorosi sacrifici.
E un'operazione del genere, inutile dirlo, reca con sé anche forti implicazioni di carattere commerciale e di mercato, che non possiamo ignorare. In un'epoca in cui l'ormai ristretta cerchia di chi compra e ascolta i dischi tende ad assottigliarsi sempre di più, circoscritta a pochi irriducibili che ancora si ostinano a considerare la musica come veicolo di cultura e nutrono un sincero interesse al riguardo, persino chi gravita attorno al mainstream dovrà prendere in considerazione il vantaggio insito nel confezionare prodotti finalmente compiuti, curati nei minimi particolari, ambiziosi e bigger than life, riconsiderando in modo radicale l'oggetto album in tutte le sue potenzialità culturali e contenutistiche. Quanto c'è bisogno, oggi, di dischi come questo di Kendrick Lamar! Autori, produttori, artisti o presunti tali: scrivete il vostro film, e la musica tornerà a vivere. E tornerà ad ucciderci, finalmente, come non succedeva da tempo.
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