R Recensione

6/10

Lushlife

Cassette City

È da molto tempo che non mi capita tra le mani un disco hip hop classico non appartenente alla grime gang inglese ed ora mi rigiro tra le mani questo Lushlife che, dopo una breve ricerca in rete, scopro chiamarsi Rajes Haldar ed essere una sorta di Alex Smoke della East Coast. Di conseguenza ci troviamo davanti ad un nerd professionista promosso direttamente dal conservatorio, dove ha studiato pianoforte e batteria jazz, ai giradischi e alla produzione; un passaggio abbastanza logico se pensiamo che il ragazzo vive a Philadelfia, capitale della disco prima quindi dell’acid house e del positive rap di Jazzy Jeff e Will The fresh Prince Smith.

Cassette City vuole essere appunto un melting pot di influenze diverse: elettronica funky suonata al posto di samples esasperati da grattacieli d’effetti secondo il verbo dei vari Timabaland e Jay Z; il rap invece, come appare evidente fin dal titolo, è dal sapore old school con la parola tornata ad essere strumento di comunicazione prima ancora che strumento musicale.

Le atmosfere solari dei tredici brani sono un’ottima compagnia per spensierate vasche in macchina sulle vie del mare coi finestrini aperti e braccio fuori in cui la monotonia della guida si mescola a quella di una rtimica piatta e di una voce purtroppo senza mordente che alla lunga, non appena il sole viene coperto da una nuvola passeggera, annoia inerosabilmente. Non a caso il momento migliore dell’album è Another word for paradise quando il nostro duetta con Camp Lo che fornisce un pò di curve ad un percorso altrimenti troppo lineare.

Lushlife, in conclusione, dimostra di essere un bravo onemanband ma questo è al contempo il suo limite più grande che lo porta a riproporre in continuo le stesse soluzioni stancando presto l’ascoltatore, per fare un vero salto di qualità occorre infatti aprirsi di più, perchè solo dal confronto con gli altri si può passare dall’essere ottimi mestieranti ad artisti propriamente detti.

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