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R Recensione

7/10

Sean Price

Mic Tyson

Come il “bravo ragazzo” Jimmy (Robert De Niro) nel film di Martin Scorsese, il rapper Sean Price, da Brownsville, Brooklyn, è uno che “nei film fa sempre il tifo per il cattivo”. Lo testimonia la copertina, in posa fumettistica da “supervillain” dell’hip-hop , i muscoli gonfi di rabbia alla Solomon Grundy (poi citato nel titolo di una canzone) e il microfono con cui ha abbattuto i nemici ancora sanguinante in mano, e il titolo del nuovo album, gioco di parole che paragona la potenza del suo mcing a quella dei pugni di un celeberrimo e temibile concittadino, l’ex campione del mondo dei pesi massimi “Iron” Mike Tyson, a sua volta soprannominato “The Baddest Man on the Planet”. Ma Sean, classe 1972 (di pochi anni più giovane di Tyson), è anche uno della vecchia scuola: in giro dai tempi in cui Rodney King era ancora uno sconosciuto e protagonista di un bel pezzettino di storia della east-coast, scuola Duck Down, prima con il duo Heltah Skeltah e poi con il supergruppo Boot Camp Click. E come ogni “cattivo” che si rispetti ha un alta considerazione di se stesso e dei propri malvagi propositi di dominio del mondo, tanto per dirne una: il suo secondo disco s’intitolava “Jesus Price Supastar”. Sarà forse per questo o per una carriera solista fin qui un po’ al di sotto delle aspettative che ora schiuma rabbia e vuole vendetta, tremenda vendetta e, Tarantino ce l’ha insegnato, quando il destino sorride ad una cosa tanto turpe come la vendetta è segno che c’è di mezzo una qualche volontà divina.

Non a caso “Mic Tyson” è di gran lunga il suo disco più riuscito: il tono generale è quello che era lecito aspettarsi – duro, sarcastico, caricaturale – ma gli eccessi verbali e auto-indulgenti vengono stemperati in una tavolozza musicale ricca, cangiante e ben articolata, allestita da un manipolo di produttori di grande talento (su tutti: 9th Wonder, The Alchemist e Evidence) manipolando in chiave espressionista sample mai banali (si va da Little Richard a Mikis Theodorakis) su ritmiche tonanti ed affilate. Largo allora agli anthem sincopati e tuttavia ariosi, costellati  di frammenti armonici perfettamente raccordati fra loro (il dittico “Genesis Of The Omega”/ “Bar-barian”), con gli archi energici e vibranti come “Price & Shining Armor” o immersi nel gotico-fumettistisco di “Frankenberry” e “Solomon Grundy” con le volute del piano elettrico su tonalità degne di un horror. Ma c’è spazio anche per brani più sofisticati, anche se non meno incalzanti e minacciosi: i cambi decisi, i fiati “blax” e il vocal etnico e acido di “Title Track”, il basso elastico e martellante e i synth dissonanti, quasi kraut di “STFU Part 2” (che ricorda lo stile di un altro “supervillain”: l’inarrivabile Doom), le tastiere allucinate ed avvolgenti al limite del psych che si sposano con una tracotanza da rap del midwest in “BBQ Sauce”, l’inciso mediorientale trasformato dal pitch e dall’autotune in una cantilena stridula, da chiamata alle armi, in “Bully Rap”, la oldschool tesa e il funk serrato dagli scratch di “Pyrex”. Raramente si tira il fiato e quando ciò avviene il carro armato Price sa destreggiarsi sulle punte dei cingoli con discreta eleganza  come in “Straight Music”, nel lounge-funk morbido col sax e i cori femminili, nel climax corale, patinato e sgargiante di “The Hardest Nigga Out”.

Divertente come un albo della D.C. Comics, muscolare e diretto come nella miglior tradizione della east-coast, il microfono-pugno di Sean Price demolisce ogni obiezione e vince per ko in quindici brani. 

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