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6/10

Sisyphus

Sisyphus

Serengeti è un rapper di Chicago attivo dagli anni ‘90 e noto per alcuni ottimi dischi (“Terradactyl” del 2009, “Family & Friends” del 2011) usciti per la Anticon records, vera e propria “garanzia di qualità” nel mondo indie hip-hop.

Son Lux è un produttore di New York che dopo aver debuttato per la stessa Anticon si è distinto per la sua eclettica visione hip hop contaminata con le avanguardie post-rock e trip-hop.

Sufjan Stevens non ve lo presentiamo più, perché non è che possiamo tutte le volte rifilarvi la storiella dei 50 dischi per 50 Stati.

 

Questi tre, messi insieme su commissione dal Walker Art Center per comporre la colonna sonora delle esibizioni dell’artista contemporaneo Jim Hodges (tra l’altro, uno che mette una candela e un profumo in una scatola e intitola l’opera: “Doppio ritratto: l’artista e sua madre”) , avranno ovviamente creato una meraviglia, un disco interessante, godibile e particolare. Un mezzo capolavoro, insomma. Ecco, no. Ma proprio no. Perché la semplice somma non presenta problemi di alcun tipo, ma laddove sono necessarie l’alchimia, l’equilibrio e il gusto non sempre uno più uno fa due. E’ un po’ la differenza tra un cuoco e un ferramenta. Se il ferramenta aggiunge un chilo di chiodi ad un altro chilo di chiodi, fanno due chili di chiodi. Se un cuoco aggiunge un etto di banane ad un etto di funghi sott’olio, fa una cagata.

 

L’album d’esordio dei Sisyphus (che fa seguito ad un Ep pubblicato due anni fa a nome “S/s/s”) si colloca a metà tra queste due possibilità: in certe occasioni il connubio tra l’hip hop, la sperimentazione e il cantautorato pop sembra ben riuscito, vuoi perché i ritmi serrati del “flow” di Serengeti subiscono le contaminazioni di Son Lux (“Alcohol”), oppure perché le iterazioni elettroniche del Sufjan Stevens recente ben si prestano alla “battuta lenta” di marca Anticon (“Calm it down”), oppure ancora perché il risultato è così bislacco da risultare irresistibile (“My oh My” è un frullatore delle tre personalità). Più spesso, però, è come se l’amalgama sia stato forzato, e il risultato di questo “eclettismo involontario” è fatto di riempitivi (di “Lion’s Share” salverei giusto il giro di basso, che di Pharrell non ne possiamo quasi più), brani che sembrano dei “mash-up” creati in fase di produzione (“Dishes in The Sink”) e numeri più o meno gradevoli attribuibili a turno ad uno dei tre membri, da “Booty Call” che è puro Serengeti a “I won’t be afraid” che avrebbe potuto trovare posto nell’ ultimo album di Sufjan Stevens.

 

Insomma, la montagna ha partorito il topolino. Carino e simpatico finchè si vuole, ma pur sempre un topolino.

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