R Recensione

6/10

The Streets

Everything is Borrowed

Uomo bianco va col tuo trio. Brit Hop. Merseybeat-maker. Cantastorie da club. Mc da operetta (nel senso: Gilbert & Sullivan. Aaaah. E che avevate capito?). Il cursus di Mike Skinner è uno dei più calzanti nel descrivere la metamorfosi socio-culturale che l’ hip hop ha sviluppato nel nuovo millennio: non più fine ma mezzo, forma aldilà del concetto (il famoso “message” a cui alludeva Grandmaster Flash). Prima idioletto, connotazione, separatezza, ora discorsività, enunciazione, versatilità. Un modo di dire le cose più che una cosa detta in un certo modo. Un esperanto incurante dell’ortodossia linguistica dei canoni originari. Potenzialità di cui appropriarsi, stili compromissori, arte per l’arte, ma non solo: anche libertà di spaziare, di uscire dall’autoreferenzialità previa una corrispettiva pluralità di significati e punti di vista.

 Nel caso specifico la teoria musicale di The Streets è figlia tanto della scena grime (e garage) dei primi anni zero - sebbene declinata in chiave “old-fashioned” e neomelodica -  che dell’iperrealismo (pop) art-core di un Eminem (tradotto in una specie di “neorealismo” rosa e aneddotico molto più british, quasi come un vecchio film della Ealing), ma parente ancora più prossima (benché più lontana nel tempo) delle vignette kinksiane degli anni ’60 (ovviamente più sboccata) o delle arringhe degli “angry young men” dell’austerità tatcheriana (necessariamente meno ideologica).

Il primo album Original Pirate Material è una cronaca agrodolce dello stile di vita dei giovani clubbers la cui filosofia di vita è ben riassunta nel pezzo Let’s Push The Thing Forward; il secondo A Grand Don’t Come For Free, un fotoromanzo basato sull’inarrestabile catena di eventi che coinvolgono il protagonista in seguito al furto di mille sterline (a “grand” in slang), è lanciato in orbita da Dry Your Eyes, forse la prima vera e propria power ballad nella storia dell’ hip hop inglese; il terzo The Hardest Way To Make An Easy Living, un’ indulgente autodiagnosi dei problemi scatenati da un’improvvisa celebrità.

Annunciato dal singolo The Escapist , anthem orchestrale (synth, sonagli, archi, corali natalizie) che cerca di rinverdire i fasti di Dry Your Eyes, il nuovo Everything is Borrowed fin dalla title-track (cut di organo a loop, archi e basso sottocutaneo) si presenta come un disco interlocutorio, un’opera di transizione, preludio ad una svolta imminente o testamento spirituale d’un trentenne, a cui Mike Skinner affida la sua nuova filosofia di vita, sempre fatalistica ma serena, svagata, quasi atarassica (“I came in this world with nothing / and i’ll live with nothing but love / everything is borrowed”).

Contenuti che si rispecchiano in una forma aerea, ballabile, raffinata, come nello scherzo “faustiano” di Heaven For The Weather , musichall broadwayano cadenzato dal suo rhymin’ epistolare e sincopato (la grande invenzione di Eminem in Stan), nella disillusione amorosa di I Think I Love You (More Than You Like Me), il pezzo forte del lotto, vaudeville tempestato da ricami di piano jazz, o nel quadretto rassicurante di On The Flip Of A Coin, operetta marziale per harmonium e violini quasi klezmer. Residui di tensione garage sopravvivono nell’ambientalista Everybody Do The Dodo prima del rilascio soul del ritornello o nel funk-rock vagamente stonesiano dell’ottimistica On The Edge Of A Cliff. La particella funk si lega poi al jazz in The Sherry In (con un ritornello degno di George Michael) o al dancehall di Never Give In. Ma più che nel gotico orchestrale di Alleged Legends è forse nello stile trobadorico di The Strongest Person I Know (arpa, chitarra acustica, fiati) che balena, a tratti, il destino di The Streets, ultimo alfiere nella tradizione britannica dello storytelling.

V Voti

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