R Recensione

5/10

Wyclef Jean

The Carnival Vol. II: Memoirs of an Immigrant

Wyclef Jean, rapper pan-etnico, musicista dotato (celeberrima e spassosa, oltre che tecnicamente impeccabile, la sua imitazione/citazione di Jimi Hendrix a Woodstock ’99) e arrangiatore sopraffino, è uno dei personaggi più affascinanti, colti e intelligenti fra quelli che si sono abbeverati all’alveo della musica hip-hop. Il suo approccio alla nobile arte dei quattro elementi è, al tempo stesso, critico e indulgente, entusiasta e concettuale, proiettato all’esplorazione di quella “terra di mezzo” in cui radici (musicali ma anche culturali) afro-americane e caraibiche si abbarbicano in un ampio respiro narrativo e polifonico, in un collage orchestrale sintetico, scandito da cassa e rullante.Un realismo poetico in grado di amalgamare alla perfezione la novelty del gangsta-rap con l’impegno sociale, la scansione affabulatoria del beat con la magnitudo strumentale e l’afflato terragno del funk e del reggae.

Al dunque, c’erano parecchi motivi (o almeno io qualcuno ne avevo) per attendere con moderata trepidazione l’uscita di Carnival Vol.II: memoirs of an immigrant (Columbia, 2007), seguito del magnifico The Carnival (1997) e terzo capitolo della trilogia peripatetica ai confini della musica black inaugurata nei Fugees con il formidabile The Score (1996). Com’era prevedibile, il decennio trascorso ha lasciato tracce indelebili (e probabilmente irreversibili) nella vita e nella carriera del “Presidente”, oggi affermato produttore, compositore di colonne sonore (nomination al Golden Globe per “Hotel Rwanda”), pop-star di buon rango (l’imbarazzante partecipazione al singolo di Shakira, Hips don’t lie, nominato ai Grammy Awards) e insignito del titolo di ambasciatore di Haiti (sua terra natale) per meriti umanitari.

Diciamolo subito, rispetto all’originale, l’ossatura è rimasta più o meno la stessa: un concept sul melting pot e la strenua difesa di una società multirazziale, diviso in 14 capitoli, prologo ed epilogo compresi, anche se, riducendo al minimo i gustosi skit/interludi, qui gli snodi narrativi e i raccordi sono più deboli e meccanici; Wyclef, consumato anfitrione e corifeo, dirige un serraglio di collaborazioni (la Refugee All Stars) che però, stavolta, complice una produzione gommosa e patinata neanche fosse un merdoso disco di Jennifer Lopez, finisce per assomigliare ad una promiscua adunata di paraculi stile “Pavarotti & Friends” più che all’esibizione dei campioni la notte dell’All Star Game.

Più che un concept, insomma, una compilation, una sfilata di singoli potenziali i cui lacerti d’originalità sono stati pazientemente temperati fino a raggiungere l’agognato target MTV friendly (si, avete contato bene, tre parole inglesi una dietro l’altra, ho deciso di far venire una crisi isterica a Nanni Moretti e poi prendo anche dei soldi in nero da G.Q.). Una delusione? In buona parte si. E cominciamo proprio dalle note dolenti, che, come direbbe Ligabue, “ce n’è”: Sweetest Girl è un pop-soul (o nu soul) per hammond e distorsori vocali alla Cher, spartito con Akon, Lil Wayne e Niia (e ‘sti cazzi, non ce lo mettiamo?), in cui l’unica cosa sopportabile è la citazione da CREAM dei Wu tang clan (“Dollar, dollar bill Yo!”); Slow Down è un Tamla soul patetico e oltretutto troppo lungo per la media dei passaggi radiofonici; Kings & Queens torna sul luogo del delitto, rinnovando la deleteria partnership con Shakira e i suoi singhiozzanti vocalizzi da cavallerizza (d’accordo, sono solo invidioso perché la mia donna non sa fare la danza del ventre, lo ammetto); Selena è uno scilinguagnolo pop-dance sui soprusi della “Migra” buono al più per movimentare un party di ambasciatori dell’ONU nella villa di Brad Pitt e Angelina Jolie (c’ero anch’io: ero quello che dopo mezz’ora già girava in ginocchio e importunava la padrona di casa); se pensate di aver toccato il fondo Hollywood meets Bollywood, invece, continua a scavare con un triviale loop di drum’n’bass panjabi. E siamo già a meta disco. Ma c’è almeno qualcosa che funziona, vi starete chiedendo.

Poco, a dire il vero: Welcome to the east è un pezzo discreto, una danza dei veli alimentata da spezie e fiati orientali, What about the baby, con Mary J. Blidge, nu soul venato di funk e tenuto a galla dal fervido talento vocale della signora, Heaven’s in New York, un pop jamaicano tutto sommato gradevole. Poi, per chi s’accontenta, ci sono anche tre pezzi niente male: Riot è puro hip hop strumentale alla Mos Def, crossover soul con scorci di funky dub e drum’n’bass: Wyclef ritrova miracolosamente il flow dei giorni migliori, Sizzla ragamuffa e Serj Tankian porta in dote il suo tipico “Armenian soul” e si produce in una spassosa strofa rappata; Fast car è una perlina di world music all’occidentale, deliziata da Paul Simon nel ritornello; Any other day un jazz caraibico allietato dai melismi pacati di Norah Jones. La tempra del fuoriclasse riaffiora soltanto in Touch your button (Carnival jam), 13 minuti di suite semi-strumentale, un gigantesco falansterio di stili (soul, rap, ragamuffin, samba, doo wop, pop, funk, r’n’b) e lingue (inglese, spagnolo, portoghese e francese haitiano), quasi un dedalo di quarti nobili estratti dalla carriera del Wyc.

Eccezioni a parte, però, come diceva Ezio Greggio ai tempi del “Drive in” (o era Gianfranco D’Angelo? Boh, che si fottano tutt’e due, guarda te di che mi vado a preoccupare), “Stavolta hai toppato Wyclef, hai toppato!”.

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