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R Recensione

7/10

Caparezza

Museica

“Questo è l’album che non vedi l’ora di sentire |

soprattutto tu che non vedi l’ora di dissentire!”

In coda al museo della musica, leggo questo slogan a caratteri cubitali sotto un poster dal sapore daliniano.

Come sempre, le domande prima di entrare in un museo d’arte contemporanea, ma questa volta moltiplicate dalla combinazione arte + musica: sarà all’altezza? Che innovazioni proporrà?

La preview, Cover, mi aveva lasciato un retrogusto amaro, vedendo un’innovazione più nelle basi che nei testi, non eccezionali, e scivolati nel peccato di un facile ipercitazionismo.

Ora so di aver preso un gigantesco granchio (più dei Prodigy).

O Grande Capa, perdonami.

Canzone all’entrata mi accoglie nel foyer di questo Guggenheim che l’artista ha creato: frizzante, tagliente, ironica, è un “manifesto surrealista” di ciò che mi aspetterà in questa visita.

Faccio per andare a comprare un biglietto, ma Non me lo posso permettere; in questi tempi di crisi, l’arte subisce un ostracismo a favore dei beni primari.

Un benefattore mi paga l’ingresso, probabilmente è uno dei tanti Figli d’arte che non crea per paura di subire la sassaiola della critica, che lo accuserà sempre di vivere all’ombra del padre.

Prima sala, quadri di periodi e avanguardie differenti.

Mica Van Gogh è una comparazione serrata con la gioventù dei giorni nostri, dalla quale esce vincitore il pittore: troppi stereotipi rovinano le giovani menti. Per quanto parta da un assunto “errato” (molto probabilmente il pittore non era pazzo), resta uno dei picchi di Museica. In quanto a riferimenti, mi sento di comparare questa canzone a Comunque Dada e Giotto Beat, la cui formula è simile e costante.

Sono un po’ depistato, in architetture di questo tipo non si sa mai dove proseguire, perché non c’è un vero e proprio percorso. Approdo a China Town, geniale prova di amalgama metrica, lirica e musicale. Va a braccetto, a livello tematico, con Kitaro.

Canzone a metà mi accoglie nell’ascensore tra un piano e l’altro, uno stacco davvero brillante, per l’uso sperimentale di parole e giochi che a ogni riascolto si rivelano sempre in misura maggiore.

Giro l’angolo e mi ritrovo nella stanza del Guernica: Troppo politico, Sfogati (sfigato) e Fai da tela (con la collaborazione di un semi-naufragato Diego Perrone) sono la triade rivoluzionaria, il cuore pulsante dell’esposizione. In effetti, questa sala pullula di ignoranti che si improvvisano critici d’arte, dando aria alla bocca.

Tiro fuori lo smartphone per fare una foto, ma mi rendo conto che È tardi: un avviso invita tutti i visitatori ad abbandonare la mostra.

Ancora frastornato dalla spirale psichedelica di visioni, mi avvio verso l’uscita con una canzone in sottofondo ma non Compro horror alla boutique onnipresente al termine delle installazioni, che vuole ricordare che l’arte oggigiorno altro non è che una forma di mercato.

So per certo di essermi perso qualcosa nel mentre, ma fa parte del gioco: in un’opera così monumentale può capitare di perdersi dettagli strada facendo.

Un dubbio mi assale, e temo che Caparezza si sia preso gioco anche di me con le sue provocazioni, come ha fatto con "Le teste di Modì", io come un critico d’arte che si ritrovi a dover valutare un falso d’autore.

Il sentore globale che percepisco a caldo è che Rezza Capa sia tutt’altro che passato di moda, e con questo concept ha svelato un nuovo, incredibile tassello del suo ingegno. In tempi di crisi per la musica e l’arte italiana in generale, si percepisce la ventata di innovazione che questo artista è in grado di donare ad ogni sua nuova opera, a discapito dell’età avanzante.

Essendo un “genere a parte”, non posso che usare le sue stesse parole per descrivere questo “processo d’invecchiamento”:

“Venghino, signori, che qui c’è il vino buono!”

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Voto degli utenti: 7,1/10 in media su 7 voti.
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micnicmic 9,5/10
andy capp 3,5/10
K.O.P. 6,5/10

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