Jamie Woon
Mirrorwriting
Che lo si voglia ammettere o no, da qualche tempo in Inghilterra è in corso un movimento assolutamente nuovo e caratteristico: il dubstep si sta appropriando sempre più del linguaggio pop, e viceversa. Si era partiti l’anno scorso col debutto dei Darkstar, legato però ad un electro-pop ancora nostalgico e non molto proiettato in avanti. La vera esplosione si è avuta quest’anno: l’omonimo LP di James Blake ha applicato le tecniche del dubstep ad un soul scarno ed essenziale, mentre “On A Mission” di Katy B le ha proiettate in un formato appetibile ad un pubblico ancora più vasto. Con l’esordio di Jamie Woon le cose cominciano a diventare ancora più chiare, aprendo così possibili scenari futuri decisamente avvincenti.
Presentato da qualche mese come il rivale di Blake, il percorso artistico di Woon è in realtà più complesso e sì, anche più suggestivo. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che il primo è una sorta di enfant prodige, cresciuto a lezioni di pianoforte, innamoratosi non molto tempo fa del dubstep e catapultato dall’oggi al domani in un universo musicale immenso per un timido ragazzo di appena 21 anni. Blake nasce come produttore tout court, i suoi primi EP sono costituiti da brani giocati su sample, ripetizioni, manipolazioni vocali: solo successivamente viene illuminato dalla fulminea intuizione di comporre musica dubstep utilizzando la sua vera voce. Jamie Woon, 27 anni, invece proviene da esperienze che affondano le loro radici in un periodo di tempo più lontano: ad essere precisi, tutto comincia nel 2007, con la pubblicazione di un singolo dai toni folk/rurali, “Wayfaring Stranger”, remixato poco dopo da sua maestà Burial. Ed è proprio su questo incontro che vogliamo ora soffermarci; sorge, infatti, una domanda spontanea: che fine ha fatto Jamie Woon in questi lunghi quattro anni intercorsi tra il primo singolo e “Mirrorwriting”? A quanto pare si è ritirato quasi del tutto dalla scena musicale piena di riflettori puntati, e lentamente ha pianificato le idee con cui costruire il suo disco d’esordio, avendo come mentore di fiducia proprio lo stesso Burial. Secondo quanto affermato da Woon, esiste un ruolo decisivo del misterioso producer inglese nella composizione di questo disco, non sappiamo se del tutto effettivo o se limitato nel campo di consigli illuminanti. Certo è che tra un approccio da songwriter classico, tutto voce e chitarra acustica, e un’attitudine così attenta ai nuovi movimenti elettronici, ce ne passa eccome.
“Mirrorwriting” è dunque un entusiasmante compendio di sonorità di cui gli ultimi dieci anni si son nutriti in larga misura: si parte dal soul del futuro coniato da D’Angelo in “Voodoo” nel lontano 2000, si arriva ad istanze microhouse, dubstep, e si nota persino una riproposizione dell’r’n’b trasfigurato recentemente in forma lo-fi da How To Dress Well. Ma non è una mera operazione di rimescolamento, bensì lo slancio naturale di un artista dall’animo profondo che vede nel nuovo linguaggio elettronico il canale più adatto per trasferire emozioni del tutto inedite. Quando una voce così intensa, così evocativa, incontra mezzi espressivi all’avanguardia, il risultato non può che essere impressionante. E infatti lo è, per vari motivi.
Innanzitutto, il disco sfoggia un’unitarietà di temi sonori e di atmosfere dall’elevato potere immaginifico, e ogni brano rappresenta un microcosmo a sé stante che comunicherebbe moltissimo anche preso singolarmente. Come non compiere, ad esempio, un tuffo nella notte in una Night Air (co-prodotta da Burial) che si insinua subdolamente da ogni parte, per merito di ipnotiche pulsazioni microhouse, synth atmosferici che si addentrano nei meandri del buio più pesto, un basso che vibra cupo e misterioso, e una voce che decanta personalissime sensazioni eteree? Colpisce la cura dei dettagli, la produzione maniacale (non a caso per scrivere questo pezzo ha impiegato circa tre anni), la perfetta armonia tra voce e tappeto sonoro. Ci sono canzoni davvero memorabili: Gravity, per dire, è un miracolo: un drone celestiale che risucchia in un vortice profondissimo beat aspirati e rallentati, con meravigliosi giri di chitarra acustica glitchata che emergono dal nulla e vi si rituffano subito dopo, e ancora una voce bellissima che esprime parole di rara intensità. Oppure, Shoulda mostra un sostrato sonoro criptico, in continua evoluzione, spaziante dall’ambient al glitch al dub, tutto tenuto insieme in un modo che ha del prodigioso. Ma questo è un disco che sa offrire anche momenti di pura classe e sensualità r’n’b, come nelle due potenziali hit Lady Luck e Middle, attente sì a un’immediata presa melodica, ma ricche anche di particolari ingegnosi (il beat imprevedibile della prima, la sezione d’archi della seconda). Si raggiungono pure vette emotive dal chiaro anelito religioso/spirituale, come nelle invocazioni quasi gospel di Spirits e TMRW, separate dal delizioso chill-out di Spiral, immerso in un’atmosfera di assoluto relax.
È particolarmente entusiasmante assistere al proliferare di lavori così legati al presente: si ha la netta sensazione che il trend di armonizzare dubstep e pop sia una delle vere innovazioni dei nostri tempi. “Mirrorwriting”, sebbene meno spiazzante di James Blake, è però il disco che finora ha raggiunto il livello più alto di songwriting e intensità emotiva. Siamo ansiosi di vedere cosà accadrà ora.
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