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R Recensione

5/10

Mantler

Monody

Chris A. Cummings, quarantuno anni, di Toronto, in arte Mantler. E fin qui, nulla di particolare: un maturo cantautore canadese che si cela dietro un più o meno sensato moniker. Ovvero, un classico dell’oggi. Non fosse che, invece, una peculiarità - seppur non esclusiva - la vanta e la sfoggia senza timori: è l’indubitabile capacità di declinare il linguaggio r&b nei canoni dell’indie contemporaneo. Un po’ come se gli Steely Dan, depressi ed inspiegabilmente avari, suonassero privandosi di qualsiasi velleità tecnica, di qualche strumento e di un certo numero di segni sul pentagramma. Rimane, a testimonianza del potenziale valore di una simile operazione, il bel risultato di Sadisfaction, opera seconda (ed esordio su Tomlab del nostro) datata 2002. A quel disco ha fatto seguito il meno incisivo Landau (2004) e poi un silenzio che, alla luce di questo ascolto, si potrebbe supporre significativo.

Artista dalle diverse propensioni, Cummings ha riversato il suo talento nell’attività di dj e nella produzione musicale cinematografica e teatrale prima di arrischiarsi, dopo ben sei anni, a pubblicare finalmente un quarto lavoro. Monody, largamente anticipato, viene presentato (e non potrebbe essere altrimenti) come il vertice del linguaggio di Mantler, la “combinazione dei migliori elementi dei suoi album precedenti” per la “creazione di una più grande, epica versione del suo suono”.

Note di agenzia a parte, il disco si presenta in realtà dotato di un carattere assolutamente ordinario. L’amore per il pop, per quello black di fine anni ’70 in particolare, si manifesta in canzoni che sono essenze delicate di soul, r&b, rock e jazz, su cui la voce di Chris, ora profonda, ora in falsetto, dispiega melodie tanto aggraziate quanto - dispiace rilevarlo -  poco o per nulla incisive. Stupisce poi, considerato il livello generale delle composizioni e degli arrangiamenti, la sfilza di collaboratori illustri che a Monody hanno legato il proprio nome: produzione di Zack G, Jeremy Greenspan (Junior Boys) e Leon Taheny (Bruce Peninsula), fiati arrangiati da Owen Pallett, strumenti in mano a gente del calibro di Sandro Perri, Ben Gunning dei Local Rabbit e a musicisti in forze presso Ohbijou, Silt, Matias Band, Sheesham e Lotus.

Non che questo disco sia da buttare, anzi, risulta in assoluto gradevole, ma di certo non colpisce e non rapisce. Colpa principalmente dell’uniformità piatta e soffocante che lo avvolge e che trattiene sul nascere qualsiasi eventuale slancio sonoro. Tutto sembra compresso, filtrato, come se passasse attraverso una parete. Una scrittura tutt'altro che originale e spesso fuori fuoco fa il resto, relegando l’album nella vasta quanto triste zona d’ombra del prescindibile.

Gli episodi migliori combaciano con l’esposizione del lato più intimo dell’artista: Author, Crying At The Movies e la finale Mount Shasta, pur non brillando per intuizioni, riescono comunque a definire e comunicare, attraverso  un’essenzialità timida e delicata, atmosfere ed emozioni di una certa intensità. Si salvano poi Fortune Smiled Again, sorta di incrocio in chiave black-pop fra Peter Gabriel e Bon Iver ed il lounge di Childman, mentre stentano le arie jazzy di Maiden Name e In Stride. Fuori luogo invece le rievocazioni disco di Fresh And Fair e Breaking Past The Day (vagamente house con wah wah al basso la prima, più tipicamente eighties la seconda) ed il romanticismo un po’ stucchevole di Also Close To The Rainbow, adatto più che altro a farcire un qualsiasi, purché scontato, love movie da fila al botteghino.

Nel caso probabile che questo Monody non dovesse portargli le soddisfazioni attese, immagino che Mr. Cummings, fra le sue svariate attività, avrà modo di trovare altro con cui consolarsi. E, fortunatamente, nel mio piccolo universo di ascolti, qualcosa per consolarmi lo troverò certamente anch’io.

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