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R Recensione

7/10

Wugazi

13 Chambers

Non si deve cercare altrove se si è scelta la regola del samurai. Questo vale per qualsiasi cosa sia definita regola. Chi si attiene a tale principio dovrebbe essere in grado di prestare orecchio a tante regole diverse, essendo tuttavia sempre più in armonia con la propria. 

(citazione del “Bushido” tratta dal film “Ghost Dog – Il Codice Del Samurai” di Jim Jarmusch) 

Wu-Tang is for the children: we teach the children! You Know What I Mean? Puffy is good but Wu-Tang is the best! (Ol’Dirty Bastard) 

La regola numero 1 è che non ci sono regole a parte quella del rispetto/ Wugazi: Staten Island – Washington DC, filo diretto/ 36 stanze, 13 canzoni, Unite come le Nazioni/ al Palazzo di Vetro, si fotta la politica, dritto in faccia senza mediazioni / da Rza a Ian McKaye/ più altri otto col fratello Guy Picciotto/ chitarre dissonanti con le loro trame/ stridono come lame/ altro che chitarre queste sono scimitarre/ meglio l’harakiri che una vita dietro le sbarre/ il basso pulsa come la vena sulla tempia di un fratello in fuga dalla legge/ la batteria t’incastra come uno sbirro che i tuoi diritti ti legge, la ritmica sorregge/ rap-core asceti della rima col guanto di paraffina/ e la base da tagliare in cantina/ questa roba è peggio dell’eroina/ un solo giro e torni a farti più di prima/ Fugazi: trent’anni di latitanza dal Grande Capitale Musicale/ senza condizionale/ DIY contro NYPD/ pantere bianconere c’addentano il sedere/ e “circolare, per piacere, non c’è niente da vedere”/ samurai di strada/ PLO Style: qua ogni giorno è l’intifada/ la proporzione: come l’OLP contro il Mossad/ “Altolà!” come un check-point alle porte di Bagdad/ Wu-Tang: in alto le mani!/ è dura la vita nel far-west dello sceriffo Giuliani/ che prima spara, poi ti sfila il portafoglio e controlla come ti chiami/ Il Ripetitore col caricatore che ti anestetizza parlando dal televisore/ ma c’è la Medicina Rossa, come Matrix, se vuoi svegliarti dal torpore/ “Sleep Rules Everything Around Me”/ Non so cosa ci faccio ancora qui/ Perché non smetto? Perché è meglio regnare nel ghetto che una vita in sala d’aspetto/ era Tupac o forse Milton: non ricordo più chi l’ha detto/ 13 stanze ognuna di quattro mura/ un labirinto pieno d’infami da cui uscire è dura/ e sono tutti lì/ come in quel film di Bruce Lee/ nemici su ogni scala ad ogni cazzo di piano/ Shaolin’, Wu-Tang e Straight Edge armi alla mano/ la mente è più potente della spada/ dietro la schiena una Glock, male che vada/ la prima cosa che s’impara è che la vita è grama/ ma in suo nome si combatte fino alla fine della trama/ come fratello Ghost contro la Mafia italo-americana/ l’essenza del codice del samurai va cercata nella morte, come una cosa che si ama/ ogni giorno in profondo raccoglimento del corpo e della mente/ ogni giorno bisogna immaginarsi morti immancabilmente/ e capire che non c’è lieto fine senza colpo di scena/ un colpo alla schiena/ non lo senti arrivare, è una sensazione strana/ come Carlito Brigante in metropolitana/ dormire, morire, forse sognare il suo sogno eterno nell’insegna Tropicana/ è sempre un soffitto con la luce al neon, a questo mondo, l’ultima cosa che vedi/ di questo è fatto il cielo su New York, baby, non lo sapevi?/ come Paul Newman: lassù qualcuno mi ama/ una luce lontana, una voce che mi chiama/ ma non è Nostra Signora, solo la Madama/ l’elicottero della stradale che dà l’estrema unzione alla follia umana/niente “Gangsta Paradise”, da queste parti, solo “Sweet Release”/ bianchi e neri, guardie e ladri, buoni e cattivi e alla fine solo: “Peace!” 

Perché chi ha detto che a Joe Lally non sarebbe piaciuto, non piacerebbe il rap, sai, quello duro che dice di venire dalla strada, e dalla strada ci viene per davvero, ma non smania per uscirci a tutti i costi, dalla strada. Toglietegli il berrettino invernale ed avrete un mostro del ritmo qual è veramente, di quelli che ascolti quasi senza rendertene conto e quando te ne rendi conto è perché si è formato un buco grosso così in testa, grosso come l’avanzare annoiato e felpato di “Floating Labels” e i campioni di “I Will Survive” incollati su qualcosa che è già mash-up di suo, cioè “Sweet Release”, e l’arpeggio morbido e la stoccata di dissonanze alla fine, e che a conti fatti sono le fragole sulla torta alla panna. Dei dettagli non te ne accorgi finché non ci sbatti addosso quel grugno che ti ritrovi, pallido e smagrito allaMcKaye o muso negro che picchia duro contro gli scudi alzati e gli elmetti distruttivi. Capisci che citare T.S. Eliot non è snobistico se in “Another Chessboxin’ Argument” il nervosismo post-punk scivola sulle rime con la stessa naturalezza di uno skate in “Paranoid Park”, capisci?, anche se Gus Van Sant ci sta lontano da queste stronzate, il pianoforte l’ha inserito di sguincio solo in “Elephant” e per suonarci Beethoven, non la trionfale apertura a due marce di “Sleep Rules Everything Around Me”. Mostrare i muscoli non è rock e non è rap e non è underground, è una cazzata allucinante aldilà di muri e distinzioni varie: i nostri ghetti li pensiamo dopo con una special delivery (consegna a forma di pacco bomba, verrebbe da dire) ma non si formano da soli, per cui o ti schiarisci la voce con, che ne so, una “Slow Like That” o merda del genere, altrimenti dalla situazione stai fuori. Fuori! Out of here! Che poi quella banda di buzzurri, cazzo, com’è che dicono, autavviar, solo loro si capiscono. Molto più capibile è quando una chitarra da due soldi macina un tappeto di arpeggi su percussioni e serrati dialoghi, che poi sono percussioni umane, e quando l’elettricità si deforma sotto urla e spoken word. Mai titolo più perfetto di “Suicide Silence”. Anche Blakroc era un bel nome e ad un certo punto funzionava, ma Black Keys non è dire Fugazi e chi può sputare in faccia a Dan Auerbach se non se l’è sentita di metterci le sue pentatoniche del cazzo sopra a “Killa Hill”, roba che con un colpo di macina lo sbarba di netto, o non ha voluto toccare e/o interpretare – sia mai che qualche purista si offendesse – il crescendo elettrico di “Shame On Blue”, non per niente meglio dell’originale con le parole che seguono il crescendo strumentale e il crescendo strumentale che cresce sotto istigazione delle parole e poi vabbè, take a seat, stappa una birra e parliamone pure con calma, non sto mica giocando con te. 

(Dietro la sigla Wugazi si nasconde il lavoro di sintesi dei produttori Andy Swiss e Cecil Otter. “13 Chambers”, figlio bastardo accolto con la benedizione dei due gruppi madre, è scaricabile liberamente da http://wugazi.com)

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 3 voti.
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ciccio 8/10

C Commenti

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ozzy(d) (ha votato 7 questo disco) alle 18:15 del 14 ottobre 2011 ha scritto:

bello, bello!!!!!

bargeld alle 20:05 del 14 ottobre 2011 ha scritto:

e bravi voi!

fabfabfab alle 18:14 del 15 ottobre 2011 ha scritto:

Due pesi massimi di Storiadellamusica per due pesi massimi della Storia della musica.

ozzy(d) (ha votato 7 questo disco) alle 20:41 del 15 ottobre 2011 ha scritto:

io a coacci gli darei il premio nobel per il grandissimo contributo allo sviluppo del sito.

simone coacci, autore, alle 20:50 del 15 ottobre 2011 ha scritto:

ghghgh Gull sei tremendo. Grazie a tutti, di vero cuore, comunque. Per noi è stato un divertimento improvvisare ascoltando il disco, spero lo sia altrettanto, per chiunque ne abbia la curiosit, leggere ascoltandolo. Solo questo: senza grandi pretese.

Marco_Biasio, autore, alle 11:21 del 16 ottobre 2011 ha scritto:

Obrigado!

ozzy(d) (ha votato 7 questo disco) alle 11:43 del 16 ottobre 2011 ha scritto:

l'ascolto di questo lavoro dovrebbe essere coatto, c'è dentro la freschezza dell'OST di judgement night, nonostante siano passati quasi 20 anni!