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R Recensione

7/10

Willie Peyote

Educazione Sabauda

Frutto di un anno e mezzo di lavoro, il nuovo disco di Willie Peyote racconta senza finzioni un periodo intenso della sua vita, in cui il rapper torinese dichiara di aver “sceso lentamente i gradini verso il punto più basso della mia esistenza, mi sono licenziato da un lavoro a tempo indeterminato, ho distrutto rapporti umani e messo a dura prova tutta una serie di legami affettivi, ho fatto a pezzettini tutto il percorso fatto fino a li ”. Questi momenti di vita sono raccontati nel disco seguendo in pieno lo spirito del rap, raccontare la vita reale, vissuta in prima persona, senza finzioni. Un modo di fare rap, il suo, molto originale, debitore tanto dei dischi fondamentali del genere quanto della canzone d’autore italiana. Influenza, quest’ultima, che risulta evidente in più di un passaggio, a cominciare dall’iniziale Peyote451 (l’eccezione), una vera e propria dichiarazione di intenti (a metà tra il rap hardcore e la canzone d’autore, non per essere il migliore ma l’eccezione) su ritmo funky, con il sax di Paolo Parpaglione dei Bluebeaters. Altrettanto splendida è Interludio (l’avvelenata), un rap classico appoggiato su un’ottima base, in cui Willie se la prende con tutti, da quelli che parlano di rap senza cognizione di causa a quelli che fanno rap credendosi alternativi e coprendosi di loghi e marchi, dai puristi del rap che non vogliono gli strumenti a chi cerca nel rap la nuova canzone d’autore, con tanto di citazione da L’avvelenata di Francesco Guccini nel finale. Un geniale colpo da maestro.

Willie Peyote non vuole stare nel recinto del “bravo rapper”, e in L’outfit giusto sparge ironia a piene mani sul look e la sua cura, anche da parte di molti rapper (la gente mi guarda e dice: tu non sembri un rapper, sembri più un batterista o un impiegato), rifiuta le Etichette (a me etichette ne han sempre messe parecchie, adolescente arrabbiato, ribelle depresso e poi rapper), sfugge la prevedibilità nella musica (da me cosa si aspettano, un disco di rap, un disco originale? Per restare hardcore ma un po’ più commerciale?) come nella vita. In Che bella giornata, uno slow con chitarra funky e sezione fiati, racconta la scelta di lasciare il posto di lavoro da travet e una vita tranquilla e già scritta (uomini il cui sogno è fare la stessa cosa ogni giorno, tornare a casa e avere il piatto pronto). Originalità rivendicata con forza in Giudizio sommario, dove emerge l’orgoglio di essere diverso (visto da fuori sono io l’anomalia, ho rinunciato a questa vostra liturgia, con l’orgoglio di essere sbagliato), prendendo le distanze da certa musica (ho la testa troppo pesante per fare musica leggera).

E di pensieri “pesanti” in questo disco ce ne sono molti: dalla libertà di pensiero rivendicata in Nessuno è il mio signore (con i featuring di Paolito e Ensi), un canto di indipendenza del pensiero e un elogio del dubbio (faccio parcure tra i punti di domanda), al razzismo inconsapevole di Io non sono razzista ma... in cui si parla di equità, onestà, e del razzismo di chi dice di non esserlo ma si comporta come tale, passando al setaccio un elenco di luoghi comuni (ci rubano il lavoro,…), e un ritornello che prende al volo con una base dal sapore swing. Non da meno è Truman Show (splendida produzione di Godblesscomputers): un gran testo, intenso, pieno di spunti di riflessione, come ce ne sono pochi nel rap attuale.

Il rapper torinese sa anche essere leggero e colpire di fioretto con l’ironia, nello slow funky de La dittatura dei non fumatori, in cui se la prende anche con vegetariani, animalisti e salutisti vari, o in C’era una vodka, su alcool e alcolismo, con un campione del sempre dissacrante Natalino Balasso. E anche quanto tratta temi sentimentali, come nello slow La scelta sbagliata (feat. Tormento) o in Willie Pooh, in cui si descrive come un analfabeta sentimentale, lo fa con originalità, convincendo per la scelta delle parole e del linguaggio utilizzato, fuori dai luoghi comuni del rap.

Willie Peyote con Educazione sabauda svetta per originalità nel panorama della musica italiana, riuscendo a parlare sempre in maniera diretta e profonda, citando più o meno scopertamente i grandi nomi del rap, del rock e della canzone d’autore (Cypress Hill, The Clash, Francesco Guccini), e chiudendo con un testo intenso e poetico (E allora ciao) in cui si cita pure Luigi Tenco.

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