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R Recensione

6,5/10

The Black Keys

Turn Blue

Al netto di EP, progetti paralleli, album live, special session, Turn Blue è l’ottavo album in studio del duo - sempre meno duo - blues rock (ha ancora senso definirli cosi?) più famoso al mondo. Patrick Carney e Dan Auerbach tornano in studio con una responsabilità micidiale considerate le aspettative altissime generate dopo che El Camino, uscito sul finire del 2011, con le sue quasi 2 milioni di copie vendute nel mondo, li ha definitivamente consacrati star planetarie, famosi ed importanti per tutti e non più solo per i selezionati ammiratori delle prime gesta, sicuramente meno altisonanti ma decisamente più imprescindibili.

Anche il marketing questa volta è stato differente, sicuramente originale vista la trovata di far partire tutto, dopo mille voci susseguitesi negli ultimi mesi sul loro nuovo album, da un tweet di un insospettabile Mike Tyson che il 21 marzo di quest’anno ha lanciato in rete (ha “tuittato”, si direbbe in politichese) il teaser del nuovo album dei Black Keys, Turn Blue.

Cosa ci si aspetta quindi dall’ottavo album dei Black Keys? Difficile dirlo. Da attento conoscitore di ogni piccola sfumatura della loro carriera direi che ci si aspetta di non fermarsi, di non guardarsi troppo indietro e di continuare a stupire non tradendo però la propria impronta inconfondibile. Dagli esordi delta-garage-blues di The Big Come Up all’hard-rock(abilly) di El Camino, si sono sperimentate deviazioni più o meno radicali verso soul (Brothers), rap (il progetto Blakrock), hard blues (Attack & release), garage (Rubber factory), sempre con l’incredibile capacità di rimanere comunque simili e fedeli a se stessi.

I primi lanci mediatici, dal teaser al primo singolo (il furbo Fever), fino agli altri due pezzi diffusi in anteprima (Turn blue e Bullet in the brain) hanno svelato subito l’arcano. Se un nuovo leitmotiv doveva guidare il nuovo album dei Black Keys questo è sicuramente la psichedelia, elemento finora mai seriamente considerato nella loro copiosa produzione, eccezion fatta per qualche piccola sfumatura in Attack & release. La conferma delle anticipazioni la dà il primo pezzo in scaletta, Weight of Love, dove da un momento all’altro sembra che debba arrivare un’assolo di Gilmour (David) a rompere l’atmosfera onirica e tremolante creata da una chitarra acustica ruvida, metallica, suonata al tramonto dell’umanità e accarezzata da una seconda chitarra elettrica immersa in un arpeggio floydiano. Poi tastiere, e chitarrone (e sono tre, le chitarre). La voce tarda ad arrivare ma quando arriva riporta il tutto in una dimensione più familiare per i Black Keys,  fino agli assoli finali di chitarre elettriche duettanti in tipico stile da psichedelici del rock seventies. Tra il gospel e la colonna sonora cinematografica (ancora) anni ‘70  è l’atmosfera di In time, fino a quando basso e batteria non danno al brano quel groove potente e accattivante (tipico di Brothers) che ne fanno l’ennesimo tentativo – riuscito, ça va sans dire - di coinvolgere l’ascoltatore nel magico sound del duo di Akron, nuovamente residente in territori R&B esplorati con immensa fortuna in passato.

La title track sembra davvero il primo serio tentativo di ravanare stancamente (o furbamente?) nel territorio indie-albionico dell’ultima generazione (a me vengono in mente Maccabees e affini), come neanche Fever aveva osato. Fever quindi, ormai famosissima e gettonatissima per radio, rosticcerie e centri estetici, in pasto a masse di utenti diversamente attenti, è il matrimonio tra i Franz Ferdinand e gli MGMT celebrato dagli OMD. Che gli vuoi dire, metti assieme i tre ingredienti con Auerbach come chef e la pietanza è buona, per forza, per quanto da loro ci si aspetta la specialità da bettola di periferia più che il piatto da ristorante buono. Ma quando si ha fame, va bene tutto, se fatto bene. E’ qui tutto è fatto bene. Buon appetito.

Year in Review sembra il rapporto incestuoso tra il funk erotico di Pietro Umiliani e la forza esplosiva del sound di Brothers. Roba illegale quindi, ma fa sangue, come si dice. Bullet in the brain, passati i primi 5 secondi in cui ti sembrano i Timoria in Sole Spento, è una pacata passeggiata di defaticamento dove le atmosfere floydiane tornano a fare capolino, con un ruolo preponderante della linea di basso, in generale mai così protagonista negli album del nonpiù duo di Akron.

It's Up to You Now è la psichedelia tribale dei Doors che ad un certo punto si apre all’epicità per folle woodstockiane. Waiting on Words con il suo falsetto melenso anni 80 su slide guitar riverberata fa ritornare il fastidio di Turn Blue e la sua mediocre ricetta indie rafforzata da passatismi stanchi. L’approccio dance, black, morbido e caldo, torna con 10 Lovers, a dire il vero molto più malinconica rispetto agli altri episodi simili nell’album. Alla fine comunque sia, un buon pezzo. Le note iniziali di pianoforte pulito di In Our Prime assieme alla voce megafonata di Auerbach potrebbero essere catalogati come un omaggio al John Lennon di Plastic Ono Band allo stesso modo in cui la conclusiva Gotta Get Away lo sarebbe per Bruce Springsteen, tanta è la sua somiglianza con la di costui Glory days.

I Black Keys con Turn Blue portano la psichedelia nelle sale da ballo, dispensando al contempo colpi ai cerchi e colpi alle botti. Tutti, almeno sulla carta, dovrebbero rimanerne contenti. Chi voleva la novità, chi voleva il passato, chi voleva che l’identità storica del duo restasse e chi voleva dipartenze radicali all’insegna della più rischiosa sperimentazione. Sulla carta, almeno. Ecco, forse è proprio questa la lettura. Turn Blue è sembrato, più di ogni altro album nella loro carriera, un album costruito a tavolino. Solo che questa volta qualcuno dei commensali, incluso lo stratega Danger Mouse, doveva avere la testa da qualche altra parte. Poco male, a breve comincerà il loro tour europeo e l’8 luglio suoneranno in Italia, a Roma. Io ci sarò, come sono sicuro tanti altri, sperando che le tracce da quest’album non rubino troppo spazio agli altri momenti che avrò davvero voglia di ascoltare. 

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C Commenti

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Franz Bungaro, autore, alle 14:46 del 15 maggio 2014 ha scritto:

Sto leggendo la recensione di Pitchfork, (uscita il giorno dopo questa nostra), e noto che abbiamo fatto praticamente lo stesso commento su un brano, "Year in Review". Io dico: "Year in Review sembra il rapporto incestuoso tra il funk erotico di Pietro Umiliani e la forza esplosiva del sound di Brothers." loro dicono: "you could probably guess that the orchestral touches of "Year in Review" were lifted from the score for an Italian 1970s sex comedy."

Allora, brutti Pitchforkoni, la smettete di copiarmi?

ThirdEye alle 21:46 del 15 maggio 2014 ha scritto:

Mah. I primi due album mi piacquero abbastanza. Poi ascoltai "El Camino", e non mi disse granchè. Magari glie lo do un ascolto. Quando ho voglia di Rock n' Roll bello scarno e "negro", comunque, ci sono sempre i vecchi album della Jon Spencer Blues Explosion a farmi godere come un riccio...altro che chiavi nere.

Franz Bungaro, autore, alle 11:29 del 16 maggio 2014 ha scritto:

a ma i tempi del "Rock n' Roll bello scarno e "negro", sono belli e finiti con Attack and Release (che già però segnava un cambiamento rispetto agli album precedenti)...qui ce n'è pochissimo, forse niente...dici però una cosa giustissima e che in molti trascurano quando si trovano davanti a questi "cambiamenti"...i dischi precedenti, comunque, sono lì e te li puoi ascoltare quando vuoi...sai che palle a fare 10 dischi fotocopia di una cosa che ha funzionato? Si è grandi quando ci si reinventa rimanendo comunque riconoscibili...loro, i Black Keys, in questo sono stati maestri...solo che quest'ultimo tentativo non è esaltante...avessero messo il tempo e l'impegno che ci stanno mettendo in questi giorni per promuovere il disco nella sala prove, e probabilmente sarebbe stato un disco migliore.

ThirdEye alle 21:16 del 16 maggio 2014 ha scritto:

D'accordissimo con te. Quindi non è un granchè? Mah...sai cosa, approfittando del mio stato febbrile, magari gli do un ascolto. Anche se dubito che mi piacerà talmente tanto da andarlo a comprare Si, ho ascoltato solo i primi due, oltre a "El Camino". Grazie della delucidazione.

Franz Bungaro, autore, alle 11:50 del 17 maggio 2014 ha scritto:

Dischi brutti dei Black Keys non esistono. questo, all'interno della loro discografia e', dopo Magic Potion, quello meno bello. Comunque il vinile l'ho comprato, come ho sempre comprato tutti i loro dischi. Ci sono due/tre pezzi validi (Fever, In Time su tutti), e pezzi veramente brutti (la title track e Gotta get away, quest'ultimo indicato da Picci4k come l'unico pezzo che si salva, bah). Poi una media appena passabile. Va comunque ascoltato!

ThirdEye alle 12:06 del 17 maggio 2014 ha scritto:

Sto già procedendo. Ripasserò per un giudizio più obiettivo