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R Recensione

7/10

Bat For Lashes

The Bride

Comprensione e fasi del TDA, innanzitutto. Niente panico: non è una nuova diabolica imposta comunale. Trattasi dello studio del lutto atipico che gli psicoanalisti Parkes e Bowlby elaborarono nel 1962 dalla prospettiva della cosiddetta “teoria dell’attaccamento”. Aggiungete in sequenza: eyeliner, mascara e ombretto eighties su pallido struggimento wendersiano. La nostalgia per qualcosa che non hai mai vissuto. Amore e morte al tempo delle plastiche pose Instagram. Lost highways da fiammeggiante melò sentimentale che schiantano il tuo presente proprio lì, all’ultima curva della notte  (il cuore intorpidito e noir à la Badalamenti del car-crash diegetico messo in scena durante “Honeymooning Alone”). Giulietta Capuleti che, prima del più celebre gesto emo di sempre, ascolta nelle cuffie dell’i-pod “Get a taste in my mouth as desperation takes hold…Is it something so good, just can't function no more?” con la maglietta dei Sisters Of Mercy. Vestita di bianco e trascendente fatalismo, lo sguardo immacolato verso l’alto e il portamento d’una mantide-prigioniera, una Giovanna D’Arco della postmodernità che rifà suo un sincretico e inconscio specchio di ataviche simbologie: così si presenta, impacchettato e pronto all’uso, l’archetipo platonico della Sposa 2.0 secondo la fertile sensibilità art-pop di Natasha Khan aka Bat For Lashes. D’altra parte se il sacro vincolo coniugale te lo smerciano dai tempi di Papa Innocenzo III con il ricattatorio ”finché morte non vi separi” nel lungo periodo il minimo che puoi fare è: darti una sana grattata e non pensarci, guardare le azioni della bilancia-matrimoniale disintegrarsi sotto l’immane peso qualunquista del maître à penser Adinolfi Mario, trarne un concept album di fulgido ultraromanticismo anni Dieci. Sì, la quotidianità dell’homo italicus non è –decisamente- mai stata uno spottone del family day dai colori pastello, né la versione fidelizzata dei disneyani Minnie e Topolino (o di Matteo R. e Agnese, ça va sans dire).   

“Ask a soothsayer and old men wives…Where the witches burnt for all our lies. Past the motorways and city lights, that my soul be free and spirit fly to land's end…”

Life’s a bitch, Natasha. C’è una Sposa socialmente standardizzata, devota, ferita, vergine santa puttana, sanguinaria e sanguinante, pietosa, vendicatrice, di nero vestita, tradita, abbandonata, segregata e infine libera/emancipata buona per tutte le lunghe stagioni che hanno attraversato l’immaginario pop del Novecento e di questo primo scorcio post-duemila, un velo iconico che dalle geishe oltraggiate nel capodopera “Rashomon” di Kurosawa e nel furioso rosso emoglobina di “Lady Snowblood” sapeva rinascere metastasi-pulp nei due volumi tarantiniani di “Kill Bill”, sui cui aleggiava peraltro implacabile la silhouette glaciale della Julie/Moreau firmata Francois Truffaut di “La Sposa In Nero”. Ma “The Bride” -quarta ambiziosa prova “crepuscolare” della Khan in una discografia iniziata giusto un decennio fa con l’efficace esordio freak/alt-pop “Fur And Gold”, seguito dal lodevole equilibrio formale e di scrittura raggiunto in “Two Suns” e dal dream-pop caleidoscopico di “The Haunted Man” che nel 2012 sposava magistralmente la solita stella polare Kate Bush a una riuscita sfoglia di persuasivi electrobjörkismi- non ha le fattezze geometriche e spietate di un revenge-movie, non ci sono coniugi da vendicare, arti da mozzare oppure piccoli borghesi idioti da giustiziare. No, nell’escapismo emotivo di “The Bride” l’unico e solo antagonista su cui rivendicarsi è il fato cinico e avverso, la casualità degli eventi, lo sberleffo della tragedia inaspettata. E il tempo che, nonostante tutto, resta ancora una pagina bianca da riempire e vivere sarà l’unico addestramento, l’unica arma plausibile per elaborare il lutto della perdita, per sopravvivere. Un’idea, quella dietro il leitmotiv concettuale del quarto moniker Bat For Lashes, nata oltre un anno fa, quando Natasha Khan ebbe l’opportunità di dirigere il corto “I Do”, parte del film-progetto collettivo “Madly” che vedeva cimentarsi alla regia personalità artistiche della più disparata provenienza (fra cui gli attori Gael Garcia Bernal e Mia Wasikowska): tema comune le diverse gradazioni e conseguenze della fine di un rapporto, uno split narrativo che nell’episodio immaginato dalla Khan rievocava i fantasmi e le suggestioni di una sposa lasciata vedova sull’altare, sorta di paradossale e sfigatissimo ossimoro vivente, a causa della morte del compagno in un incidente stradale. Dai sospiri stregoneschi di “I Saw A Light” alla Sposa tormentata che sparge dolciastra afflizione al neon intorno alle fiabesche tessiture dreamy di “Joe’s Dream”. Touché, e uno a zero per NK.

“And now i can't see just what my heart can hold…But what does it mean? The bad things that i've seen.”  

“I Do”, con i suoi rintocchi all’omnichord e il riconoscibile, accorato timbro di Natasha, è anche l’introduzione baroque-pop, da eterea e cameristica marcia nuziale, che alza il velo su questi quarantasette minuti di mosaico sonoro perturbante e immaginifico, una diamantata affiche di translucidi fotogrammi perduti a riprova del talento trasversale dell’artista londinese (un talento pieno e riconosciuto, ribadiamolo: nelle dodici tracce la meticcia ragazza suona tastiere, Rhodes, chitarra elettrica, bass synth, drum machine, arpa, batteria, vibrafono, celesta, oltre ad arrangiare gli archi e curare personalmente l’art direction visuale dell’album, videoclip inclusi), seppur in una veste apparentemente più “classica”, meno spregiudicata in termini strumentali e di soluzioni stilistiche rispetto ai precedenti lavori in studio. Per la Khan è piuttosto il definitivo esame di maturità all’università cantautorale dei Grandi Cuori Infranti, quella che ha ben presente tra i suoi testi/numi tutelari opere spezzacuore come “Blue” e “Blood On The Tracks”. L’espiazione esistenziale nell’adombrato ricordo di un amore ineluttabilmente lontano, destinato a un'evanescente e ciclica replica/ombra di sé: dalle fotografie fluo dell’eroina-sposa di Neil Krug al lettering dell’artwork che cita il fulmine-copyright di “Aladdin Sane” ai flessuosi singoli di aeree sincopi electropop “In God’s House” e “Sunday Love”, due dei brani più ispirati e meglio “costruiti” del lotto, tutto in “The Bride” richiama un vago e malinconico sentore di vissuto scisso, incompiuto, ferale: capita in un diafano gospel blues di spettrali ricami acustici (“On a road, forever you will be riding to me…Metal death, cliffs exploding. Sirens mourn to me nightmares come and they don't go…For my love is gone and i will never forgive the angels for that…”, “Never Forgive The Angels”) e nella radiante coltre cinematica/ambient della visionaria “Close Encounters”, dove emerge vieppiù la cura maniacale di una produzione monstre che a fianco della titolare trova impegnati vecchi collaboratori quali i multistrumentisti Ben Christophers, David Baron e Simone Felice dei The Felice Brothers con nomi noti ed esperti della consolle (Dan Carey dei Toy e del side-project Sexwitch, Jacknife Lee, Head al mixing, Matt Hales). E se a tratti sembra affiorare una maniera gradevole financo compiaciuta (lo scarno piano-confessionale e il falsetto Joni Mitchell che avvolgono la diligente “If I Knew”, la chiusa da zuccheroso valzer synthetico di “In Your Bed”, con le orchestrazioni dell’italiano Davide Rossi e Lou Rogai al basso e chitarra) “Land’s End”, in cui la Khan riesce ad esorcizzare buio e luce con la sua (magnifica) voce da mezzosoprano sospesa tra la Polly Jean più poetico/impressionista e un eco di sirene inabissato nella Fossa delle Marianne, e l’ipnotico ticchettio della brumosa ballad atmosferica “I Will Love Again” ristabiliscono un peculiare, fortissimo, non casuale potere evocativo. A detta dell’autrice di “Daniel” quello della triste e dolente Sposa è il vestito musicale che agognava da sempre, l’abito intrinseco che più ama e la rappresenta: per chi scrive non il miglior simulacro possibile finora concepito a nome Bat For Lashes, ma un riuscito matrimonio/unione delle diverse anime della Nostra che sa colpire laddove sovente falliscono molti altri colleghi (e colleghe) a lei contemporanei, ovvero nel sapersi gestire con un’innata e poliedrica qualità dentro il caotico scenario Pop dell’oggi indiemainstream. Finché la perfida mietitrice Brexit d'Albione non ci separi, cara Natasha. Fino ad allora, nella gioia e nel dolore, proveremo comunque a scansare le “bad things” della vita, soppesando di lieve speranza il cuore che “one of these days, one of these nights i will love again…”

“See her in blue eyes, numb and shining, in the face of strangers…In the city lights where he's climbing…Cupid’s diving, and i know that she's come to spend the night.”

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Voto degli utenti: 7,3/10 in media su 3 voti.
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woodjack 7,5/10
zebra 7,5/10

C Commenti

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Cas alle 10:03 del 28 luglio 2016 ha scritto:

Splendida recensione-digressione: leggerti è sempre un piacere. Ora tocca ascoltare l'album!

woodjack (ha votato 7,5 questo disco) alle 14:57 del 28 luglio 2016 ha scritto:

recensione davvero davvero bella, per forma e contenuti! complimenti! quanto al disco, sembra segnare un passo deciso verso la dimensione cantautorale, già ascoltata nel pur bello ma incerto lavoro precedente. L'inabbissarsi graduale della musica, il suo rallentare lungo la tracklist come a seguire la tragedia narrata, la capacità di introspezione del personaggio e il suo sviluppo, fanno di questo concept qualcosa di più che la somma delle sue parti dove, è vero, sembrano mancare certi guizzi folgoranti degli esordi. Ma del resto, quando uscì Two Suns, le si rimproverava proprio l'incostanza, l'alternanza di brani sufficienti e di brani clamorosi. L'escamotage narrativo qui sembra aver aiutato la nostra a trovare la strada per poter scrivere un lavoro omogeneo. E quindi per me giudizio più che positivo.