Bjork
Post
La prova del fuoco del secondo album deve essere stata sentita particolarmente da Björk dopo che il suo primo lavoro da solista fu unanimemente incensato dalla critica di tutto il mondo. Eppure, con straordinaria preveggenza, questa schiva islandese pareva avere già capito tutto di come sarebbero andare le cose, e ha chiamato i due dischi di conseguenza: il primo “Debut”, e quello dopo, appunto, “Post”.
Fu la stessa Björk a dire che i due album costituiscono un “prima” e un “dopo”, ma attenzione a non considerarli due parti di un’unica opera: entrambi godono infatti di originalità e indipendenza proprie. E del resto, di cambi tra un album e l’altro ce n’erano stati, e si sente, a partire dal trasferimento dell’artista dall’Islanda all’Inghilterra fino alla decisione di avvalersi della collaborazione di alcuni dei nomi più noti dell’elettronica per la composizione di alcune canzoni: Tricky, Howie B, Graham Massey, Nellee Hopper, tutti in veste anche di produttori dei brani.
Il cambio principale è costituito dall’aver deciso di svoltare verso una techno molto più minimalista rispetto all’album dell’esordio: le atmosfere si dilatano, c’è più spazio per i tappeti di sintetizzatori, e spesso l’entrata pulsante della batteria avviene solo nella seconda metà del brano, per far accelerare l’emozione (come nel caso della meravigliosa “Hyper Ballad”).
Non è comunque di sicuro un album che si rifà solo ad atmosfere elettroniche di stampo techno, casomai questa può essere solo considerata una comoda etichetta dentro alla quale rinchiudere l’intero campionario di influenze e riferimenti stilistici diversissimi tipico di una mente sismica come quella di Björk: si va dalla cover di “It’s Oh So Quiet”, vecchia canzone dell’attrice/cantante Betty Hutton, all’elettronica pesante e cupa di Tricky in “Enjoy”, dagli arrangiamenti di archi che reggono tutta la raffinatissima “You’ve Been Flirting Again” al trip hop delle aperture ritmiche in “The Modern Things”, dalle percussioni di “I Miss You” alla canzone per sola arpa e voce e rumori ambientali cioè “Cover Me”.
Gli episodi dell’album che realizzano contemporaneamente tutte queste e altre contaminazioni stilistiche sono forse i più memorabili, e tra tutti spiccano “Isobel” e il primo singolo “Army Of Me”, che coniuga una basso synth sul quel si regge tutta la canzone con un riff killer di gusto industrial che accompagna il ritornello: e, benché la canzone abbia fatto il giro del mondo (grazie anche al bellissimo, surreale video di Michel Gondry), quando subito dopo la metà del brano restano solo la voce di Björk e il basso inizia ad aprirsi sul phaser è quasi impossibile non rendersi conto che anche stavolta il cerchio si è chiuso, e la conferma di Björk come artista capace di avere una sensibilità peculiare per la musica del suo tempo e al contempo di essere ricercatrice e innovatrice della stessa è ormai una certezza.
Tanto più che la stessa Björk sorprende anche per le doti vocali, non dovute tanto alla sua particolare voce ma al modo di usarla: spesso la melodia principale è sostenuta unicamente dalla voce (tranne nell’ultimo episodio “Headphones”, atto d’amore alle cuffie come trasmettitrici di emozioni, dove la voce è volutamente sconnessa), senza effetti ma ricercando solo l’orecchiabilità senza per questo tralasciare la volontà di creare qualcosa di inedito.
E sono tutte cose che si sapevano già dall’album di esordio, se non fosse che Björk in Post aggiunge una dimensione in più alla sua ricerca vocale, che è quella dell’onomatopea, evidente in certi versi (gli ”iRRRitating noises” di “The Modern Things”) o nella disinvoltura nel passaggio tra ottave (come quando la voce di Björk gioca a rincorrersi con l’arpa in “Cover Me”).
C’è infine da notare il gusto tutto personale per la scoperta che è proprio di questa artista islandese, che sembra gettarsi sulle cose e sperimentare con la curiosità e l’ingordigia di un bambino, che libero dalla confusione e dal caos del mondo degli adulti riesce a vedere le cose nella loro essenza, a scinderle nelle loro componenti elementari e riassemblarle in nuove forme come si fa coi lego. Sensibilità fanciullesca perfettamente riflessa anche nei testi, dove Björk ad esempio ci dice che tutte le cose moderne sono sempre esistite, hanno semplicemente aspettato il tempo giusto per apparire, o ci parla di lei mentre getta oggetti da un precipizio e resta a guardarli e ad ascoltare il rumore che fanno quando arrivano al fondo.
Se per Björk la musica è un gioco, allora lasciamola fare, perché sono in pochissimi a saper giocare così: e buon divertimento a lei ma soprattutto a chi la ascolta.
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