Elbow
Build A Rocket Boys!
Artefici di alcune delle pagine più ispirate del panorama brit del nuovo millennio, gli Elbow tornano ora con un nuovo disco, a distanza di tre anni da quel "Seldom Seen Kid" capace - come mai prima nella loro carriera - di ottenere ampi consensi sia di pubblico (disco di platino in U.K., tournée con molti sold out sia, appunto, nel Regno Unito che negli States, in questultimo caso di spalla ai Coldplay) che di critica (Mercury Prize nel 2008, Brit Award e Ivor Novello Award nel 2009). "Build A Rocket Boys!", prodotto dagli stessi Elbow presso il Blueprint Studios di Manchester, mette sul piatto come dabitudine strutture particolarmente reiterate tratto caratteristico della band in cui agiscono raffinati e creativi intrecci strumentali (mai virtuosi) ed aperture melodiche rarefatte. Ciò, in buona sostanza, rappresenta il palcoscenico ideale per gli apporti poetici e profondamente nostalgici di Guy Garvey.
Nel caso specifico, "Build A Rocket Boys!" si snoda (se si vuole, in maniera moderatamente maggiore rispetto al passato) nel contrasto tra attitudine intimistica ed enfatizzazione di pulsioni epiche, questultime incanalate, nel loro "apice", in soluzioni orchestrali squisitamente votate per la dimensione live. Variando poco nella forma, il sound degli Elbow è ancora una volta alimentato da influssi progressive rock (Soft Cell, Genesis) ma con tendenza al lavoro di sottrazione (ad esempio, arrangiamenti ricchi ma dallossatura scarna; eliminazione dei solo, come da "tradizione"), atmosfere evocative (Talk Talk), buone dosi dimmediatezza rock-pop di matrice brit (Radiohead, Coldplay, Doves), dedizione per le rifiniture e per i minimi dettagli strumentali (Peter Gabriel ad esempio, anche per gli sporadici rispetto al passato - innesti world).
Il disco, con The Birds, parte decisamente col botto: lo spigoloso e sobbalzante loop di basso eseguito da Turner e la metrica garbatamente "sostenuta" del pezzo, fungono da trampolino di lancio per il volteggio irrequieto e inebriante delle tastiere di Craig Potter; il brano spicca, successivamente, per la perfetta sintonia (e sincronia) tra il maestoso crescendo orchestrale degli archi ed il cantato di Garvey, sospinto con forza e meraviglia dal suo inconfondibile (ed emotivo) timbro regale e, insieme, moderatamente astenico. Menzione anche per i versi del brano, davvero poetici: "Did they sing a million blessings, as they watched us slowly part? Do they keep those final kisses, in their tiny racing hearts". La successiva Lippy Kids cattura - efficacemente -il cruciale passaggio "evolutivo" dallinfanzia alladolescenza ("Do they know those days are golden?") e lo libera dalla demonizzazione adulta, lasciando che Garvey dia respiro ai suoi lamenti malinconici, ponendo idealmente - in standby il tempo. Si tratta, a parere di chi scrive, di un vero gioiello, nel quale lo sporadico fischiettare - colmo di innocente spensieratezza - e la breve variazione pianistica in coda, paiono impronte dalla forte identità simbolica, davvero senza tempo.
La prescindibile With Love (nella quale, il mandolino iniziale e l'hand-clapping successivo, si ricongiungono nel ritornello, posizionandosi come contraltare rispetto al coro pacato della Hallè Youth Choir) lascia il posto a Neat Little Rows, primo singolo di "Build A Rocket Boys!". Il pezzo, mette in mostra un groove di notevole impatto, smosso da un basso impetuoso, desertico e da percussioni vibranti; qui, un cantato lievemente distorto, viene arricchito dallo scintillante apporto delle tastiere e dal buon lavoro percussivo sul fluire del ritornello. Non la nuova Ground for Divorce, ma comunque un pezzo che si lascia ascoltare. La languida Jesus is a Rochdale Girl, eseguita in acustico e animata da preziosi contrappunti di pianoforte, si muove con fare sobrio e terso tra i "travestimenti" di riesumazioni mnestiche (adolescenziali) di Garvey: il brano è stato il primo composto per il nuovo album e rappresenta per chi scrive la punta di diamante del disco. La ballata - dal robusto sapore melodrammatico - The Night Will Always Win risulta un po troppo pianificata in direzione di una certa drammaticità; il perpetuo e latente tratto epico, fuoriesce dallassetto minimale del brano, in circoscritti ma intensi (e fastidiosi?) "sbuffi". La creativa - sebbene tendente ad una prolissità eccessiva - stratificazione di High Ideals si dispiega in una struttura prog possente (benché tuttaltro che densa) a forti tinte art; discreto, qui, il binomio tra limperturbabile loop di basso e gli inserti dallandatura molto passionale - del pianoforte. High Ideals è, ad ogni modo, una composizione che si dimostra poco longeva con il passare degli ascolti. Tra lelegia per piano dellonirica The River (la loro Pyramid Song?) ed il reprise di The Birds - toccante proseguo della opening track, cantata per loccasione da John Mosley ("We wanted a man with a sweet but frail voice, and John got the job", da un articolo del Guardian di fine 2010) - lurgenza epica prende estrema forma in Open Arms: brano magniloquente ("We got open arms for broken hearts, like yours my boy, come home again") il quale è messo in scena con un assetto orchestrale particolarmente tronfio e pittoresco e da cori (eseguiti sempre dalla Hallé Youth Choir) squisitamente da "stadio" (come in passato, non è una novità: sentire, ad esempio, la coda di Grace Under Pressure). Open Arms è un brano in cui lemozione non va ricercata, perché già "confezionata" e pronta alluso, proprio come in One day like This (o Grace Under Pressure, a piacere): qui, però, siamo su ben altri livelli qualitativi, ed il tutto risulta troppo "plasticoso", difficilmente digeribile. In coda al disco, come nella precedente release, il tema dellultimo episodio è lamicizia (Friend of Ours, dedicata alla memoria di Bryan Glancy): in Dear Friends si celebra, splendidamente, la continuità mentale ("You are here, in my head, in my heart") di rapporti che, al di là di ogni limite spazio/temporale, permangono e vivono nel ricordo, e nellaffetto di ognuno.
Nel complesso, "Build A Rocket Boys!" è un disco che, se posto a confronto con il precedente "Seldom Seen Kid", ne esce, se non sconfitto, quantomeno minimizzato, rischiando di apparire come il primo lascito "minore" della loro discografia. Lontano dallestro e dalle pretese di complessità di "Cast of Thousands" e "Asleep in the Back", e caratterizzato, in alcuni casi, da una minore intensità e urgenza lirica, il lavoro ci consegna, fortunatamente, ancora molto di cui emozionarci, specialmente dove a "vincere" sono i tratti più intimi (Lippy Kids, Jesus is a Rochdale Girl, The River, Dear Friends) e meno epici delle composizioni.
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