Keane
Perfect Symmetry
I Keane sono l’antipop. Apriamo così con questa affermazione sacrosanta una stroncatura che appare doverosa, inevitabile e anche prevedibile alla vigilia dell’ascolto. Si partiva prevenuti? Certo che si partiva prevenuti! Non si può negare infatti che per quanto si cerchi di essere critici e oggettivi il famoso gustibus influenzi in maniera decisiva il recensore. E il giudizio del suddetto in questo caso è alquanto impietoso nei confronti di uno dei gruppi più deleteri degli ultimi anni sfornati dalla corte di sua maestà britannica.
Ancor più nocivi perché non dichiaratamente mainstream ma in bilico tra Mtv e limbo alternative più o meno di nicchia, anche se chiaramente più spostati verso le charts. Come dire piaciamo alle ragazzine e proviamo a buttare l’amo nel laghetto dei nerds musicali che bazzicano soulseek. Più o meno quello che riescono a fare i Coldplay, anche se partendo da presupposti opposti (dall’underground al successo di massa). E il termine di paragone non è scelto a caso vista la spudorata influenza che Martin e soci hanno avuto sui Keane. La differenza ovviamente è che i Coldplay, seppur tra alti e bassi, un minimo di classe e talento ce l’hanno, mentre dischi come Hopes and fears (2004) e Under the iron sea (2006) non sembrano proprio dei gioielli innovativi di questo decennio.
Perfect symmetry se possibile riesce a fare anche peggio, lanciandosi in una versione dei Coldplay danzereccia appena spolverata di indie e con molti rimandi al wave-pop di una volta. E riesce anche a sorprendere notevolmente con l’intrigante new pop funkettaro di Better than this, nonché con il delicato sapore ‘80s in cui il cantato di Tom Chaplin, altrove insopportabile, acquista uno spessore notevole. Ma sono fontane nel deserto, e il cerchio si chiude con l’attacco vivace di Again & again, ultimo caso di new pop scintillante che riesce a combinare suoni ben curati e un cantato enfatico avvincente.
Il resto è alquanto deprecabile, e parlarne equivarrebbe a sparare sulla croce rossa. Ma da buoni cecchini perversi non si resiste alla tentazione di denigrare violentemente il pop barocco, patinato, vuoto e stracarico di Lovers are losing e Pretend that you’re alone, così come l’avulsa Perfect symmetry, sfarzosa, pomposa e priva di ogni idea che sia degna di nota. Ci si aggrappa a tre accordi di piano e a coretti proto-glam tra cui spuntano riflessi dei peggiori Queen, come nella moscissima Playing along.
Oppure si scade in un modello canoro che sembra arrivare laddove cantanti come Paul Banks e Matt Bellamy hanno solo lasciato intravedere qua e là: esasperazione epica inserita in un’intollerabile enfasi vocale. Laddove insomma sono giunti i Killers da un pezzo (forse da sempre). L’ugola che si apre per ricercare la potente perfezione e che si arrampica su decibel sempre più alti e sostenuti, pensando di essere originale o particolarmente suadente (Black burning heart, Spiralling).
E piovono gli sbadigli invece, raggiungendo picchi di produzione industriale nelle pessime ballate You don’t see me (praticamente gli U2 periodo How to dismantle an atomic bomb, cioè i peggiori di sempre) e nella conclusiva Love is the end. Ecco non so se l’amore sia effettivamente la fine ma sicuramente Love is the end è la fine di uno strazio, e non può che acquistare punti per questo suo dolce merito di calare il sipario su uno spettacolo pietoso.
Tweet