Air
Pocket Symphony
Esordire con un album fulminante è spesso un’ arma a doppio taglio nella carriera di tanti gruppi, per i quali risulta problematico sia ampliare quel discorso creativo, sia mantenersi su livelli consoni al loro nome. In alcuni casi quel fardello è troppo pesante e molti ne vengono schiacciati. Chi non ricorda il calvario degli Stone Roses, oppure la famosa “sindrome Portishead”, quella che porta un gruppo originale a venire prosciugato da una valanga di cloni, e a restare per anni nel limbo dell’animazione sospesa.
Se il “Moon Safari” del 1998 rimarrà per sempre scolpito accanto al nome Air come una medaglia olimpica, è innegabile che la cifra stilistica brevettata da quell’album, fatta di leggera elettronica analogica anni ‘70, sognanti bagliori acustici e epidermiche partiture chill out, che creò il più imitato standard compositivo della musica downtempo di fine secolo, sia stata impossibile da eguagliare.
Come il gruppo di Beth Gibbons, anche il duo parigino è stato risucchiato dagli epigoni, mantenendosi però decisamente alacre nelle produzioni. Alcune non disprezzabili, come il sontuoso benché imperfetto delirio estetico di “10000 Htz Legend”. Altre decisamente dozzinali, in particolare “The Virgin Suicides” e l’onanistico side-project con Baricco, per poi approdare nell’ altalenante ritorno alle origini di “Talkie Walkie”.
L’ ascolto delle dodici tracce di cui si compone la nuova fatica di Godin e Dunckel evidenzia come il nome Air possa essere ancora tra i più affidabili dell’easy listening sintetico, grazie anche alla scafata produzione da abile mestierante di Nigel Godrich, ma anche come quel vertiginoso senso della modernità che traspariva dalle prime produzioni sia ormai un ricordo. Di nuovo c’è solo il sempre più evidente esotismo nipponico in alcuni episodi, impreziositi da alcuni strumenti particolari del Sol Levante come una sorta di arpa (il Koto) e un simil banjo (Shamisen), ma non sembrano inserti capaci di rivitalizzare un canovaccio ben consolidato.
I nostalgici del Safari Lunare leniranno la loro saudade con una “Space maker” davvero godibile, che sembra replicare la memorabile suite “La Femme D’argent”, con tanto di break centrale e gustose tastiere vintage con plusvalore di una chitarra acustica à la “All I Need” (del resto, qualcuno ha mai rimproverato ai Chemical Brothers di aver più volte riciclato, sotto altre spoglie, “The Private Psychedelic Reel” ?). Non dispiacciono nemmeno la contagiosa reverie orchestrale di “Somehere Between Waking And Sleeping” ( alla voce c’è Neil Hannon) e il minimalismo dalle parti di Steve Reich dell’ algida “ Night sight”, mentre il retro-futurismo della fumosa “Myfair Song” evoca il fantasma dei primissimi singoli pre- Moon Safari. Pollice verso invece per il clichè chill out “Once Upon A Time”, che si avvita in un manierato intreccio tra pianoforte e drum machine, e anche il cammeo di Jarvis Cocker rende irritanti le già macchinose intuizioni di “One Hell Of A Party”. Il resto scivola via senza lasciar traccia. Brutto segno. Ideale colonna sonora per un anonimo pomeriggio in una città deserta di domenica. Niente di male, ma eravamo stati abituati a ben altri film.
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