R Recensione

5/10

Blue States

First Steps Into

Nel 2001 l'inglese  Andy Dragazis si trovava al posto giusto nel momento giusto: con la sbornia ambient pop al suo climax storico, la gente che faceva a gara nello strapparsi i capelli per Melody A.M. degli svedesi Royksopp e gli Zero 7,  risposta americana agli Air, sulla breccia dell’onda con Simple Things. Dead Cities, Red Seas & Lost Ghosts degli albionici M83 non era ancora in giro (mancavano un paio d’anni): insomma, Nothing Changes Under The Sun, disco che Dragazis fece uscire sotto la sigla Blue States si candidava seriamente ad essere “la risposta d’oltremanica” all'onda anomala di quell'anno.

Così non fu: e mentre i suoi colleghi si godevano i meritati onori Dragazis rimase lì sulla banchina ad aspettare un treno che non passò mai. Colpa forse di un disco a tratti un po’ debole o di un’uscita parecchio in sordina (in termini promozionali, ovviamente): resta il fatto che la vicenda dei Blues States è di quelle un po’ da loser che sciolgono i lettori più teneri di cuore.

Il seguito ci parla di un paio di uscite volte ad evolvere il proprio stile e variare le proprio inclinazioni sonore alla ricerca di una visibilità che, l’avrete già intuito, non arriverà mai.

Con questo First Steps Into (titolo ironicamente amarognolo, si direbbe), Dragazis tenta il jolly e si gioca la carta del ritorno alle origini. Mossa pericolosa perché mirata ad un passato prossimo invecchiato precocemente in questa manciata danni: il potere detonante di quelle uscite che, grazie all'azione sdoganante degli Air, riconciliavano il pubblico indie con suggestioni neoclassiche e con d.n.a. sonori che fino a qualche anno prima sarebbero state etichettati come muzak, , si è dissolto, sepolto dalla banalizzazione operate da tante uscite alc onfine col chill out e superato a sinistra da sperimentazioni ed evoluzioni affini ma già distanti anni luce dalle premesse di partenza.

La chincaglieria sonora che i Blue States si portano dietro, cosparsa di archi sintetici e costellata di santini di John Barry e Morricone, clavicembali ben temperati e layer fatti girare al contrario, vocine dal pitch alterato e caramelle pop degne di Kid Loco suona oggi incredibilmente datata. Il disco tende ad evaporare senza lasciare traccia al passaggio nei nostri stereo.

La colpa è nostra (o forse solo mia): siamo volubili e voltagabbana, mutevoli, cinici e bari. Non c’è dubbio. E proprio per questo ci auguriamo che i Blue States riescano a trovare una loro nicchia di individui stabili e dal gusto immutabile che possano apprezzare appieno questa quarta fatica. Difficilmente succederà da queste parti ma ce lo auguriamo comunque: sarebbe un modo come un altro per riparare a qualche torto fatto dal destino e a dare un lieto fine alla vicenda agrodolce del nostro beautiful loser.

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.