Brian Eno
Before And After Science
Era una calda serata di giugno quando feci la conoscenza di Brian Eno. Sorseggiava da un bicchiere mentre discorreva con alcuni giornalisti nell’atrio del teatro. Sono sicuro fosse qualche infuso etnico e ricercato. Quando mi venne incontro, gli presentai la mia copia in vinile di “Low” (Bowie/Eno). Scrisse la versione abbreviata del suo nome e con una freccia la collegò al corrucciato setto nasale del Duca Bianco. Brian Eno è come lo immaginate: un signore inglese dalle movenze tranquille e raffinate, dal sorriso gentile, dal temperamento apparentemente meno eclettico di quanto dia a vedere nelle sue opere.
Certo non possiamo immaginare come fosse in quel lontano 1977, mentre lavorava ai primi due capitoli della saga berlinese con Bowie e si accingeva a pubblicare l’ultimo LP della sua tetralogia “rock”. Il termine rock chiaramente è del tutto arbitrario e criticabile, ma può risultare utile per distinguere i cosiddetti dischi di “canzoni” suonati con la fidata sbilenca combriccola (Manzanera, Fripp, Phil Collins, Percy Jones, Moebius-Roedelius) da quelli di composizioni strumentali e sperimentazioni di ogni sorta; come nelle tre opere precedenti e i capolavori con i Roxy Music, il compositore piega la forma canzone alle sue esigenze sonore e avanguardistiche attraverso un approccio trasversale, obliquo, per usare un termine caro all’autore, un atteggiamento musicale che forse prende spunto più dall’ambito della performance e del minimalismo che non da quello del rock evoluto.
Leggermente meno sperimentale del predecessore “Another green world”, “Before and after science” trova nella suddivisione bipartita un fattore che lo accomuna ai lavori con Bowie: nel primo lato si succedono brani dalle caratteristiche più agitate, dalle intuizioni jungle di “Kurt’s rejoinder” (dedicata all’artista Dada Kurt Schwitters) al post-punk “King’s lead hat” (anagramma di Talking heads), dalle geometrie distorte dell’apertura al pop sghembo di “Backwater”, mentre nella seconda parte le composizioni diventano più estatiche, i ritmi non si limitano a rallentare ma procedono progressivamente verso la dilatazione assoluta dei suoni.
Qualcuno userebbe l’aggettivo “zen” ma sarebbe poco adeguato per descrivere l’appassionata e insieme distaccata stasi che traspira da classici quali “By this river” e “Spider and I”. Alcune strutture create da Eno, ad esempio “Julie with…”, “Thru hollow hands” e “Energy fools the magician” (potrebbe stare incastonata nella seconda metà di “Heroes”), regalano suggestioni di immobilità, ma si tratterebbe sicuramente di un’impressione causata da qualche sfasamento temporale: io percepisco piuttosto un moto rallentato e rarefatto, come quello dell’Orologio del Lungo Presente, meccanismo realmente esistente studiato per scoccare con i millenni invece che con le ore.
Nella traccia finale la musica si fa ambiente (environmental, se si vuole usare terminologia à la page), mi soffermo a immaginare l’ambiente in cui Bowie e Eno lavorano insieme e i tetti su cui i due amici si concedono un momento di letargica quiete per osservare il cielo sopra Berlino, un cielo in cui purificarsi, distaccarsi dal terreno e galleggiare all’infinito.
SPIDER AND I
Spider and I
Sit watching the sky
On our world without sound.
We knit a web
To catch one tiny fly
For our world without sound.
We sleep in the mornings,
We dream of a ship that sails away,
A thousand miles away.
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