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R Recensione

6,5/10

Deerhoof

Breakup Song

"Quando non ci capisci niente e' avanguardia"    

…mi disse, realmente, una volta un amico, che oggi, con un nome di fantasia, chiamerò Simone Rinaldi.   Salterei le presentazioni per i Deerhoof, giunti al loro dodicesimo LP in ormai 15 anni di ininterrotta carriera. Breakup Song e' un album d’avanguardia pop/rock, ma anche di math rock/pop, di art pop/rock, oppure noise, oppure pop. Con esso il multietnico quartetto di San Francisco dà l'ennesimo colpo di reni, lo scatto sui pedali, per non perdere terreno dal gruppo di quelle teste calde che in questi anni ha continuato a pedalare forte nel destrutturato e schizofrenico cosmo della musica imprevedibile, sperimentale, d’avanguardia, gli indie tra gli indie (tra gli altri, in ordine sparso, Flaming Lips, Xiu Xiu, Dirty Projectors, Animal Collective, Mae Shi, These Are Powers, l’immensa Marnie Stern, Ponytail e Battles).  

Al mio amico Simone oggi direi che, a distanza di anni, ho imparato ad apprezzare “la musica che non capisco subito”, quella che mi arriva per vie traverse, quella che non suonerei con la chitarra attorno ad un falò in spiaggia (era un esempio, so che sono vietati, ora), o almeno non prima di essere totalmente preda dei fumi dell’alcol. Quella musica che mi piace ascoltare quando sono solo e non devo rispondere alla simpatica domanda: “ma che razza di musica ascolti!?!” Saranno stati gli ascolti ininterrotti, obbligatori, di Freak Out (e successivi) dei Mothers of Inventions di Frank Zappa invece di ascoltare musica normale come facevano (quasi) tutti, chi lo sa.  

Fatto sta che sono cresciuto con gusti strani e questa prodromica confessione, che sa tanto di excusatio non petita,  vuole solo in parte giustificare il mio giudizio su quest’album. Per consentirmi di dire che, tutto sommato, neanche mi ha stupito più di tanto. Sono altre le sperimentazioni che mi sarei aspettato, sono altri gli squilibri, le asimmetrie, i ritmi sincopati, le pause e le ripartenze quando non te le aspetti, in una parola, gli azzardi. Perché se arrivi ad immaginare di aver già ascoltato un pò tutti i pezzi, se dopo numerosi ascolti non sei in grado di ricordare un brano,  ed hai persino un’allucinazione nella quale ti sembra di sentire un pezzo dei Deerhoof (namely, Mario’s Flaming Whiskers III) a scaldare la pista da ballo di un villaggio turistico, capisci che forse non ci sono più gli azzardi di una volta.  

Il cantato di Satomi Matsuzaki, al solito, è dolce ed orecchiabile quasi fossimo nel pop, quello col prefisso J o K, di  ammiccantissime all-female band nipponiche. Le chitarre di Ed Rodriguez e John Dieterich si affacciano di tanto in tanto nei brani mostrando talvolta muscoli noise e architetture sconnesse “da Battaglie” (Breakup songs, Zero Seconds Pause, Monthball the fleet) altre volte venature funky-fusion (There’s That Grin, Flower), sempre con l’impressione di spazzar via l’intrecciatissimo caos sonoro, stratificatosi e ammassatosi nel frattempo, fatto di suoni campionati, beat stile videogames vintage (Bad Kids to the Front) e note di sintetizzatore. La batteria di Greg Saunier, come in ogni lavoro dei Deerhoof, assume un ruolo leader nell’assecondare e dirigere i continui sbalzi d’umore della band. E lo fa, come sempre,  egregiamente.  

Le maestose tastiere di To Fly or Not to Fly introducono, non prima di una capatina nella disco music anni 80, il riff di chitarra più cattivo dell’album, che proprio nel momento in cui ti carica di adrenalina, viene bruscamente interrotto dai samples di trombe della successiva The Trouble with Candyhands, il mambo psichedelico che non ti aspetti.     L’ultima traccia, Fate D’adieu, è, invece, il pezzo bello perchè bello. Una canzone che ha (quasi) la forma di una canzone, come ti dimentichi che esistano, dopo un’immersione nelle ansie da banalità dei Deerhoof. Un intro di chitarra stile Rolling Stone che precede strofa, ritornello e bridges, di quelli che potresti pure provare ad eseguire, in spiaggia attorno ad un falò.    

Una menzione a parte merita però We do parties (che quando inizia giureresti di averla già sentita, da Bjork forse?). Non passerà alla storia per la sua bellezza, ma sembra avere una sorta di significato esoterico e mistico per la band, anche a sbirciare il loro sito. O altrimenti qualcuno mi spieghi cosa significano espressioni tipo “così parlò il Jingletron” o “l’autojubilator è gratis”!  

Breakup Song: Noise jingles for parties (lo dicono loro).

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Voto degli utenti: 5,5/10 in media su 2 voti.
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C Commenti

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salvatore (ha votato 5 questo disco) alle 13:46 del 25 settembre 2012 ha scritto:

Questo è il tipo di art pop che mi lascia indifferente: tutto art e niente pop... Più "lineare" e meno caotico dei predecessori, come fa notare benissimo Franz, ma sempre sconclusionato e povero di pathos. Un esercizio di stile, insomma. Sì, siete strambi, art, avant... e quindi?

Franz Bungaro, autore, alle 11:01 del 26 settembre 2012 ha scritto:

Messo in rete quando ho finito di scrivere.

Gio Crown (ha votato 6 questo disco) alle 22:29 del 26 settembre 2012 ha scritto:

riguardo all'equazione "musica che non si capisce=avanguardia" sarei cauta...ho in mente certi vocalizzi e versacci strumentali di John Cage che a me inesperta e abituata a suoni più orecchiabili sembravano solo una presa in giro degli spettatori mentre la critica li osannava come "musica (?) di avanguardia"! Una musica per quanto dissonante e destrutturata deve catturarti quel tanto che ti spinga a riascoltarla per esplorarne ogni passaggio ogni armonia più riposta e ad apprezzarne le sonorità. Questo album per me fa parte di questa categoria. Carino, direi quasi discreto e come loro stessi hanno detto, adatto, tranne per qualche pezzo un po' troppo energico, a fare sottofondo a party raffinati di gente alla moda.