Egyptian Hip Hop
Good Don't Sleep
Tranquilli: non si tratta di un collettivo hip-hop che fa rime arabe con cadenza da muezzin, né di musica primitiva emersa dalle piramidi (che poi pare esista l’hip-hop egiziano, ed è anzi una delle scene musicali più importanti della nazione). No, molto semplicemente è una band di Manchester che credevamo ormai morta e sepolta: un singolo nel 2010 (Wild Human Child) e a seguire un EP (Some Reptiles Grew Wings), entrambi sulla scia dei Late of the Pier; ottime aspettative, musica fresca e frizzante, e poi silenzio per due anni. Ascoltando Good Don’t Sleep si può intuire il motivo di tanto mistero: quella con cui abbiamo a che fare adesso è praticamente un’altra band, con un’estetica musicale e visuale profondamente diversa.
Si pone innanzitutto il problema di collocare la band nell’attuale panorama britannico: troppo strambi per essere accostati ai Foals, più arzigogolati dei Metronomy, più scomposti ritmicamente dei Wild Beasts (sebbene ne condividano il produttore), troppo apatici per essere associati a quella declinazione emozionale del pop-rock che diversi gruppi hanno operato negli ultimi 4-5 anni. E allora la naturale conclusione è che gli Egyptian Hip Hop si sono scavati un posto nel sottosuolo inglese con coordinate spaziali e temporali piuttosto differenti da quelle individuate dai trend recenti. Questa sensazione è acuita dall’estetica particolarissima che avvolge i video dei singoli lanciati finora: quello di Yoro Diallo è impostato su un fake di qualche b-movie orientale degli anni ’80, ipotetico film di cui la canzone sembra costituire la colonna sonora, con i suoi synth dal sapore esotico e primitivo che tanto bene si accostano agli scenari da moschea del video. Un’estetica che dunque coniuga il gusto per atmosfere arcane con uno spiccato senso del grottesco e del surreale, due componenti evidenziate dal fare ironico che permea ogni movimento musicale e visivo del gruppo: i titoli di coda indecifrabili che appaiono già a metà canzone, con characters che sembrano provenire da qualche novella gotica ottocentesca, sono un po’ la cifra stilistica di un gruppo che cerca di schivare rigide classificazioni e schemi convenzionali.
Il video che accompagna SYH è invece puro concentrato di espressionismo visivo e mette in luce un’altra importante caratteristica del suono Egyptian Hip Hop: come vedremo più avanti, questo è un disco pieno di momenti esotici, a volte squisitamente caraibici, ma non bisogna trascurare la fascinazione per un decadentismo dark che la band dimostra di possedere (e visibile sin dalla tetra e criptica cover). Questo video, scurissimo e immerso in un fondale blu da Videodrome, fa quasi scomparire l’elemento umano (di cui restano solo ombre sdoppiate e compenetrate, o mani avvolte dalla nebbia) e gioca a destrutturare forme geometriche a ritmo epilettico: una sequenza enigmatica di garage sotterranei illuminati da strobo-lights, fumo e gas dispersi nel buio, giochi di ombre presi dal cinema espressionista.
Ma ora arriviamo al punto più difficile: fornire, almeno in linea di massima, indicazioni su quello che è il suono di Good Don’t Sleep. La difficoltà è data dalla compresenza di vari elementi che concorrono insieme a formare un amalgama unitario e compatto. Parlare di minestrone vorrebbe dire averci capito poco di questo disco: l’eclettismo della band è un’attitudine con cui essa riesce ad addentrarsi in atmosfere differenti lasciando però ben visibile il proprio marchio di fabbrica. Potremmo allora dire che quello che abbiamo di fronte è un art-pop dalle venature dreamy, strumentalmente giocato tutto sugli intarsi dialoganti di chitarra, basso e batteria (alternati a vicenda in un ricamo dalle preziose sfumature), la prima settata generalmente su temi ora caraibici ora afro, i secondi alle prese con una rielaborazione del tessuto ritmico tanto caro ai Japan di Tin Drum (viene in mente anche Bill Nelson), e dunque basso cavernoso e mutante simil-Mick Karn, quasi funk nel suo innestare groove ipnotici, ma timbricamente più freddo e bianco.
SYH, il singolo apripista, quasi in odor di trance, aveva lasciato presagire una svolta elettronica che non si è concretizzata appieno, questa componente essendosi rivelata solo un tassello in più al disegno complessivo e non elemento primario. I dieci brani di Good Don’t Sleep (12 se si considerano le due bonus track, di cui segnaliamo il dub strumentale di John Baker, roba che i Peaking Lights sognano di notte) sono canzoni dalla struttura circolare e in progress, in cui l’elemento vocale il più delle volte tratteggia paesaggi sognanti senza dare tanti appigli sul piano melodico. Più che melodie, infatti, queste sono armonie eteree strettamente connesse col substrato strumentale, così che l’impressione di fondo che se ne ricava è quella di uno svolazzo trasognato che però, a differenza dei nuovi acts dream-pop senza sostanza, non scivola senza lasciare traccia. Ascolti ripetuti rivelano una perizia armonica e “corale” ben più matura di quella proposta dai seguaci di Fleet Foxes e compagnia bella (citiamo ad esempio gli ultimi, sonnacchiosi Foals). E i brani entrano in testa per vie traverse, mediante un citazionismo sottile e non esasperato; ci ho provato tante volte a capire dove ho sentito quel synth o quel giro di basso, ma mi sono arreso all’ipotesi di una rielaborazione audace e ben celata di tutta una serie di suoni, distanziati se presi singolarmente, coesi in questa formula magicamente arty. Provare per credere.
L’interplay ossessivo e reiterato tra chitarra e batteria di Tobago ha qualcosa delle recenti tendenze filo-caraibiche, ma scordatevi i Vampire Weekend (c’è persino nel mezzo un bridge di ascendenza Atlas Sound); Yoro Diallo parte con una di quelle tastiere che hanno fatto la fortuna dei Boards of Canada, ma presto si tramuta in accattivante e sexy afro-pop; ancora più indecifrabili i pezzi della parte centrale, tra una Strange Vale psichedelica e karniana fin nel midollo e una Snake Lane West che suona come un nastro mandato al contrario, con chitarre sbilenche e melodia spaesata, la batteria che segue un ritmo impossibile da inquadrare. La band riesce persino ad essere emozionante e viscerale in The White Falls, pezzo che lambisce lo shoegaze con spiccata emo-tività, o nella conclusiva Iltoise, una sorta di ambient vocale che dipinge paesaggi desolati: le percussioni scompaiono, restano chitarra e synth in punta di piedi su trame altamente suggestive.
Good Don’t Sleep è disco che si svela col tempo e si colloca tra i lavori pop più originali sentiti quest’anno. Si spera che esso non finisca colpevolmente nel dimenticatoio come capita a tante proposte di belle speranze ma ignorate dalla critica (in questo senso le recensioni positive arrivate finora anche da siti insospettati come Pitchfork fanno ben sperare). Sarebbe un peccato non dare un seguito a un lavoro così variegato e promettente.
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