Everything Everything
A Fever Dream
Qualche osservatore della vecchia scuola ha già rispolverato per questo disco la tiritera della normalizzazione, perché ad un revival della musica anni 80 che si rispetti non può non accompagnarsi un revival della critica anni 80 (ça va sans dire ); a me piace descrivere questa fase come il momento in cui la grammatica progressiva si mette a servizio della forma-canzone permeandone il tessuto più intimo alla ricerca di unosmosi tra complessità e immediatezza. Più complicato a dirsi, in fondo si tratta di un processo di stabilizzazione (chiamiamolo così) del linguaggio che è tendenza naturale, e che evidentemente sta caratterizzando questo momento storico similmente a quanto accaduto in passato, tanto da richiamare alle menti, in maniera altrettanto spontanea, certe vetuste ed archiviate term-ideologie (prego ascoltare i Mew di questanno oppure, e non a caso, gli Yes del 1983 per capire quel che voglio dire).
Per quel che riguarda i nostri, le evidenze di questa stabilizzazione si erano già affacciate nel lavoro precedente, alla luce del quale lattuale può ben leggersi come il più ovvio approdo, definito e possibilmente definitivo, alla filosofia del pezzo-killer. Tranquilli, sostituita la vertigine architettonica con un impatto più orizzontale, gli Everything Everything sono sempre loro, tra collaudatissimi incastri strumentali e voci falsettanti, magari con un campionario sonoro più eighties (synth analogici, sequencer e quantaltro), che certo, di questi tempi, non desterà stupore. Come non ci stupirà rilevare che, allinterno di questapproccio, emergono più decise le impollinazioni già presenti dagli esordi tra la black tie e il white noise (per dirla alla David Bowie), filo conduttore di tutta la contemporanea intellighentia pop, specchio della società dellintegrazione totale cui si oppone è dattualità - il protezionismo culturale (che spesso sfocia nel razzismo) dei reazionari di tutto il mondo.
Luno-due iniziale del disco (Night of the Long Knives / Can't Do), tra rnb e Pet Shop Boys, basterebbe, se ne avesse il potere, a fermare la costruzione di qualsiasi muro, fisico, linguistico o ideologico. E chiaro che tali premesse possono condurre solo in un luogo, ossia nellormai affollatissima terra di mezzo che sta tra le nicchie e le masse, tra fighettismo e populismo sonoro, e in questo senso anche la scelta di James Ford come produttore al confine tra indie e mainstream (Arctic Monkeys e dintorni, Jassie Ware, Florence and the Machine tra gli altri) appare tutto fuorchè casuale. E la mano di Ford si sente eccome, dove la similitudine più forte la rintracciamo proprio in quellAM che, nel 2013, fu lalbum delle scimmie da alcuni più apprezzato e da altri nientaffatto capito. Il rischio, per questo lavoro, è proprio questo anche, e soprattutto, per un altro pesantissimo motivo. Esaurito il discorso sugli aspetti formali e multiculturali, allappello manca lultimo grande pilastro estetico dei nostri anni: la retromania. Mi direte: hai già fatto riferimento al recupero di sonorità vintage, ecco appunto, ho parlato di suoni, ma non di contenuti.
Lo scorso anno gli M83, nella promozione del loro album più retromaniaco in assoluto, Junk (spazzatura), hanno dichiarato che per loro è stato come accendere la radio nello spazio e captare tutta la musica più becera (e quindi più figa) che trasmettevano a metà degli anni 80. Il disco, fottutamente intransigente nel suo voler essere coacervo di avanzi recuperati dal bidone dellumido, è stato giustamente o no, ma certo prevedibilmente massacrato da chiunque. La parabola è chiara: senza attenuatori ex-post, ossia senza sovrastrutture indie (siano esse patinature di vario genere piuttosto che sfocature ipnagogiche), lodore del marcio non si può sopportare. Gli Everything Everything lo sanno bene, per questo rimangono fedeli alla loro sofisticazione (Alt-j) e alla loro composta emotività (Wild Beasts). E così, senza farsi troppo accorgere, cedono anche loro alla tentazione del lercio, ma lo fanno in maniera, oltre che raffinata, totalmente inedita, pescando cioè da un bidone diverso. Troppo facile ravanare tra le influenze già storicizzate di 30 anni fa (la distanza storica è, di per sé, un attenuatore ex-ante), gli Everything Everything giocano duro, e accendono la radio negli anni 00. Cosa trovano? Beh, trovano il rock decadente post-radioheadiano dei Muse, la coralità oratoriale post-U2 degli Arcade Fire o, se vi piace, la mostruosa sintesi dei due sopra rappresentata (in)degnamente dagli ultimi Coldplay (non sono forse loro la più grande band del pianeta?). Ascoltare Desire, Big Game o White While per credere. Ma trovano anche un pop mainstream fatto di eroine plastificate, innocue punkettes usa e getta (da Katy Perry a Avril Lavigne, da Pink a Kesha, insomma lharem di Dr. Luke), monouso come i ritornelli circolari sulle quali bamboleggiano (gli esempi più sfacciati di quest'attitudine sono Good Shot Good Soldier e Run the Numbers). E qui che losservatore indie si perde, incapace di cogliere quei riferimenti che allascoltatore mainstream suoneranno tanto familiari da avvicinarlo, potenzialmente, a schemi di gioco alt(r)i.
Il dubbio è: siamo entrati nellera del revisionismo in diretta o si tratta della solita furbata per tenere tutti contenti? Se furbata è, contiene sempre il rischio di cui sopra, ossia che il disco piaccia a tutti finendo per non piacere a nessuno, troppo impomatato per chi cerca scuotimenti di pancia, troppo ammiccante per chi vede nella normalizzazione una concessione al gusto plebeo. Mai come ora mi vien da dire: che ognuno di voi si faccia la sua idea secondo il suo gusto, in ogni caso gli Everything Everything, mai come ora, suonano troppo contemporanei per essere un gruppo di oggi.
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