Glasser
Ring
Punto primo: questo disco esce con una delle copertine più belle dell’anno. Punto secondo: l’album le sta dietro che è un piacere. Punto terzo: si torni al punto primo. Perché “Ring” suggerisce circolarità: non è un caso se l’ultimo pezzo del disco termina come inizia il primo, né se il desiderio di riascolto stimola un uguale e continuo ritorno sui propri passi. Glasser, cioè Cameron Mesirow, da Los Angeles, ha fatto centro. Dopo due Ep preparatori, il debutto conferma che la ragazza può ambire all’attuale olimpo delle ragazze che sperimentano col pop. E mica sono tante.
“Ring” parte, certo, dalla Bjork più diafana, raccoglie il tribalismo celestiale della menade Bat For Lashes, sublima a furia di overdubbing vocali e synth aerei verso vette incorporee stile Enya, per poi sfociare in caleidoscopi tutti suoi, impalpabili e traslucidi, che si aprono in continue rifrazioni coloratissime, ghirigori elettronici, vezzi strumentali un po’ freak e beat figli di un r’n’b gustosamente dada (presente Jenny Wilson?). Su tutto, una voce glabra ma vitalissima, su registri costantemente alti che aumentano il grado di ‘astrattismo’, anche dove le scorticature elettroniche e i sapori ancestrali porterebbero in basso (“Apply”: Natasha Khan + la Bjork selvaggia di "Human Behaviour").
Difficile stabilire un genere, anche se di certo il prefisso art- non dovrebbe mancare: la Mesirow cerca ed esibisce il decoro intellettuale, e così tutti i pezzi del disco hanno una breve coda ‘meta-musicale’ che ne smaschera l’artefazione, lasciando isolati alcuni effetti, inserendo spunti fuori contesto o facendo intra-sentire voci e commenti del dietro-le-quinte. Outro come svelamento del trucco, ma anche come didascalie giocose: di “Home”, che fila briosa tra hand-claps e tocchi imperfetti di marimba, in una sorta di gospel da asilo nido, restano alla fine solo tastiere ineffabili. Di un brano che dovrebbe cantare le radici (“Home”, ripete ossessiva la Mesirow) rimane solo aria.
Vetta del disco, se non ci fosse una “Mirrorage” eccellente: sullo sfondo di beat a martello e bassi pulsanti, glockenspiel labirintici e campane da giochi di specchi, l’appello della Mesirow («Can I trust in you?») suona quasi inquietante. Fever Ray (c’è anche un vocoder, e soprattutto i suoi produttori dietro) aleggia come il fantasma nordico che è. Ma le corde noir non sono quelle di Glasser, per quanto l’attacco ‘cold-wave’ di “T” citi “Vienna” degli Ultravox in modo smaccato e le spire espressioniste di “Clamour”, sugli incroci dissonanti di tastiera e fiati, rimandino a certe scure installazioni avangarde. La Mesirow, per il resto, preferisce ninnoli e tinte vivaci: ecco allora le cineserie a riccioli, gli arabeschi vocali e gli svolazzi di sax di “Glad”, le luci ipnotiche di “Plane Temp”, la corsa orgiastica di “Tremel” o le rincorse di marimba di “Treasure Of We”.
Se c’è ancora qualcosa che manca, in Glasser, è lo sprigionamento di melodie all’altezza delle sue protettrici di cui sopra. Ma l’impressione è di essere davanti a un’artista che seguire da vicino, riascoltare e attendere, negli anni a venire, diventerà un piacere. Circolare, si intende: qui si tornerà spesso.
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