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R Recensione

7/10

James Vincent McMorrow

Post Tropical

Le chiese d'Irlanda e il suo cielo tanto celebrato mi hanno regalato il disco che vale una vita (“Astral Weeks”), e quindi è naturale che il mio approccio sia circospetto, quando mi portano sotto gli occhi una qualsiasi altra opera proveniente dalla terra di verde colorata.

Mi sono avvicinato a James Vicent McMorrow solo perché siamo quasi coetanei, abbiamo esattamente venti giorni di differenza sulla carta d'identità, e questo mi ha costretto a un confronto vis à vis: vediamo cosa riesce a dire questo fresco trentunenne irlandese, giunto oggi al secondo album della carriera (il primo risale al 2010 e si intitola “Early in the Morning”: confesso di non avergli dedicato altro che un ascolto distratto diversi anni orsono, e quindi non azzardo mini-recensioni in questa sede).

Il primo impatto è stato meno entusiasmante del previsto: la voce delicata e sulfurea, pericolosamente affine a tanto indie-pop che rappresenta quasi la mia nemesi, e forse addirittura incline ad assorbire le sfumature più patetiche di Antony Johnson, mi ha lasciato perplesso. L'impressione, in sostanza, era quella di un piccolo bluff.

Mi sbagliavo.

C'è voluto qualche ascolto per farmi largo fra i fili e le nebbie, per cogliere la disarmante bellezza delle dieci tracce dell'album, così ricco che alla fine riesce a farmi digerire, quasi a farmi amare il timbro angelico e incantato di James.

Il titolo rimane un mistero (Post Tropical: potrebbe far pensare a cose meravigliose come la produzione più estatica e variopinta di Veloso, ma siamo in territori piuttosto distanti, nonostante per dire la title-track sia un alverare di suoni e di percussioni liquide), ma la musica si svela poco a poco: James architetta piccole sinfonie di soul-pop che mettono (tendenzialmente) in cantina le chiare ascendenze irish-folk del disco precedente per ampliare i propri orizzonti.

Per prima cosa, appunto, l'impatto diventa quasi sinfonico: “Look Out” cresce fra rintocchi sinistri, voci effettate, una tastiera imponente, il ROLAND TR-808 che fa capolino (qui e un po' ovunque).

Gli spazi si dilatano a dismisura e la musica diventa spesso pura astrazione, quasi intangibile, quasi priva di una vera e propria dimensione corporea: tanto che “Cavalier” o “Reapeating” sembrano uscite dalla penna di un Bon Iver (quello del 2011) virato elettro, con il falsetto che fluttua nel vuoto e l'aria che si espande in un'alba luminosa. E tragica (il crescendo sofferto di "Glacier").

James dà sempre l'impressione di essere alla ricerca della redenzione, di vivere un tormento solo apparentemente sereno. E per esprimere questo trambusto ricorre a mille espedienti, inserendo persino sferzate di beat hip-hop in mezzo a rimandi blue-eyed soul che sembrano partoriti dagli anni '60.

Forse non c'è una traccia che si stacchi nettamente dalle altre, manca il fuoriclasse in grado di fare la differenza: ma questa è l'unica pecca di un album per il resto freschissimo e multiforme, che segna un punto importante a favore della canzone d'autore sui generis targata 2014.

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Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 2 voti.
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