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R Recensione

7/10

Mariposa

Liscio Gelli

Verrebbe quasi spontaneo asserire che ci volesse la pandemia per rivedere in azione i Mariposa, formalmente assenti dal “Semmai Semiplaya” del 2012 (che però, a sua volta, si limitava a rivisitare il materiale originale del meraviglioso “Semmai Semiplay” dell’anno precedente, ultimo disco con Alessandro Fiori in formazione): non fosse altro che la maggior parte delle registrazioni di “Liscio Gelli” (titolo geniale) è datata addirittura al dicembre 2013, dunque agli albori di quella breve e intensa stagione di recupero filologico dei balli popolari veneto-emiliani che aveva interessato ad un tempo critica specializzata e underground tricolore. “Liscio Gelli” è, pertanto, non solo il più classico dei dischi mai perduti ed infine disseppelliti, ma anche pioniere a latere di una tempolinea che ha intrapreso poi direzioni del tutto diverse e, nel contesto radicalmente diverso dell’hic et nunc, testimone ucronico di una sbornia che fu (e che molti, oggi, hanno probabilmente dimenticato).

Oggettino eccezionale non solo per ontologia ma anche, e soprattutto, per sostanza, questo “Liscio Gelli”. Non ingannino il filo conduttore, l’imbeccata di titoli e atmosfere, i continui calembour: lo stralunato omaggio dei Mariposa al liscio è solamente esteriore. Lo si misura da una semplice constatazione: non uno solo dei pittoreschi agitatori che affollano le balere del nordest è stato coinvolto nella scrittura o nella realizzazione dei brani che, al contrario, vedono un sospetto pullulare di soliti noti (gli OoopopoiooO Vincenzo Vasi e Valeria Sturba, Daniele Rossi, Enrico Pasini…). La direzione, dunque, è chiara: musica (s/de)componibile, zappiana quando non addirittura beefheartiana, coerentemente melodica ma mai del tutto incasellabile (“liscio” è un termine ombrello in cui confluiscono almeno valzer, polka e mazurka), sottilmente politica negli intenti e lontana da qualsiasi manifestazione di cattivo gusto (anche se il crossover di tentazioni tenoristiche e stornelli per vocoder in “Let’s Go Party” tende verso una certa ridondanza). Pop sbagliatissimo e dunque giustissimo, che infila scioglilingua giullareschi tra gli interstizi delle trocaiche zoppie di un lascivo kolo formato exotica (“Aurelio”), che sfrangia una danza della pioggia caraibica con chitarrine fuzz a basso voltaggio e archi di una produzione disco d’antan (“Pura Vida, Dittatura!”), che improvvisa un kazačok westernato ricolmo di bizzarrie concrète (“Golpe Galop”) e che affida all’irresistibile voce di Serena Altavilla un subitaneo cambio di passo doo-wop fra gli ostinati ¾ dell’esilarante “Nando”. La stessa Altavilla riconferma tutta la propria poliedricità nel t(w)ango magnificamente arrangiato di “Licio” (ascoltate il testo, per il vostro bene!), spalleggiata dalla controparte maschile di Daniele Calandra in quello che, con ogni probabilità, è il brano migliore del disco (la mazurka psichedelica dell’opener “Misericordia”).

Menzione speciale merita il pezzo conclusivo, “Il Lupo”, che per immaginario e datazione (le note di accompagnamento segnalano che è stato registrato in differita nella primavera del 2019) sembra scostarsi significativamente dal resto del materiale di “Liscio Gelli”. Così come la trasognata e ricorsiva filastrocca canterburyiana di “Ma Solo Un Lago” spediva in un iperuranio fantastico l’onda lunga di “Semmai Semiplay”, così “Il Lupo” racconta una storia di ordinario populismo in un’atmosfera di ovattata sospensione, avvolta da una sottile bruma psichedelica che rende difficile segmentarne i contorni. Si pone dunque una domanda fondamentale: “Liscio Gelli” esiste veramente, o è piuttosto il frutto di un’allucinazione collettiva?

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