Outfit
Performance
Quintetto di Liverpool con allattivo un bellEp passato semi-inosservato (Another Nights Dreams Reach Earth Again, 2012), gli Outfit covavano da più di un anno il discone, e lo propongono al fine per la periferica Double Denim, in un outfit di stile geometrico 70/'80 non casuale. Figliocci degli Associates e del sophisti-pop più buio, in Performance (notare la classicità austera di moniker e titolo) dimostrano da manuale come raccogliere leredità new wave e rivestirla del gusto brit post-Wild Beasts sia la strada migliore, se ben percorsa, che possa intraprendere il pop dAlbione.
Autoprodotto con grande attenzione al suono, non senza un gusto tipicamente arty per le eccentricità (compaiono passi sulla neve, porte che scricchiolano, il rumore dello sportello di un lettore dvd e altri field recordings vari), ma con un senso per le melodie molto radiofonico (sentire I Want Whats Best per credere) e unattitudine danzereccia che è piena eredità del decennio 00 britannico, il disco è uno di quelli che si infilano subito sottopelle, rivelando poi con lentezza tutte le proprie sfaccettature e i propri fantasmi.
E di fantasmi ce ne sono. La voce impiegatizia di Andrew Hunt diventa quella di un dandy fuori tempo massimo, tanto più in alcuni pezzi dal piglio new romantic (Spraypaint, cioè una specie di Roxy Music rabbuiati), ma per lo più rende sinistri i suoni attorno a lui, come nello strano horror pop di House On Fire, puntellato di effetti inquietanti ma ben spedito nella sua sezione ritmica dancey. Le chitarre spesso sfregiano con tocchi minimali, languiscono stupefatte, si portano dietro echi e delay muovendosi in vuoti che ricreano quelli delle stanze in cui il disco è stato registrato. Si batte il tempo e assieme si sta allerta. La title-track si sposta con passo felpato, tra sincopi e una batteria scombinata, per distendersi nel cupo synth del ritornello, in stile Pet Shop Boys calati in un teatro espressionista. Pop circospetto.
Il basso sempre preminente, come già nellep, guida le canzoni in serpentine esterrefatte ma piene di groove, dove è incerto se si possa ballare lultimo pezzo del party (Elephant Days) o iniziare la paranoia della solitudine (Phone Ghost), tanto più strisciante se si considera la precisione millimetrica con cui è stato curato ogni singolo suono, che sembra quasi assediare chi ascolta. E risulta liberatoria, dopo tanta addomesticata ossessione (The Great Outdoors), lapertura dreamy con tracce di chillwave di Thank God I Was Dreaming, con cui gli Outfit dimostrano di saper perfettamente vestire di abiti modaioli e sgargianti i loro pezzi. Two Islands, il singolo con cui la band si fece notare due anni fa, chiude puntinando di piano una melodia che la voce hotchippiana di Hunt rende ballabilissima e memorabile.
Uno dei debutti inglesi dellanno.
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