St. Vincent
Masseduction
A questo giro Annie Clark aveva dichiarato: «E la prima volta che penso che questa potrebbe diventare la canzone preferita per qualcuno», parlando del primo singolo (New York) estratto dal suo nuovo album qui in oggetto. La dichiarazione, più che un gesto di arroganza, andrebbe interpretata come lindicazione di una nuova direzione che guarda allaccessibilità come un valore da conquistare, un valore alto e persino nobile. Canzoni da ricordare, da canticchiare possibilmente, canzoni a cui affezionarsi, insomma più pop e meno art, più cuore e meno cervello. Non che gli osservatori acuti non avessero già intuito da un po che è qui che saremmo andati a parare, ma gli intenti espliciti della cantautrice-compositrice-chitarrista lasciavano presagire in questoccasione un cambio di rotta deciso, addirittura incompromissorio. E New York, una ballata fragile e dolce sul senso della perdita (ispirata, a detta dellautrice, dalla morte del guru David Bowie), viaggia proprio su questi binari, con il suo arrangiamento minimale, dalla semplicità un po naif e linedito tono tenero del canto. Il resto del disco purtroppo, per chi scrive, non si rivela altrettanto efficace.
La Clark rimane certo sul pezzo, come si suol dire, declina il suo verbo in chiave ancora più sintetica rispetto a quanto non avesse già fatto nel precedente St. Vincent, e dimostra di sapersi allineare alle tendenze del momento: Los Ageless, il pezzo più ficcante del lotto, fa proprio il mood dei Depeche Mode come già si era sentito altrove in questo 2017 (Ulver e Goldfrapp, per citarne un paio), Masseduction si lascia sedurre è il caso di dirlo dallerotismo synth-funk che da Prince arriva dritto a Bruno Mars, e ovviamente non manca lomaggio post-disco a Giorgio Moroder, pure lui tra i miti protagonisti di una fortunata restaurazione, nella tiratissima Sugarboy. Niente di male nel volersi aprire un varco verso un pubblico diverso, del resto le interconnessioni tra indie e mainstream sono unaltra caratteristica peculiare dei nostri tempi, se non fosse che all'ascolto si ha la sgradevole sensazione che le canzoni, questa volta, avrebbe potuto benissimo scriverle qualcun altro al posto suo. Perché Los Ageless suona in fondo come un pezzo qualsiasi dei Franz Ferdinand (neanche dei migliori), Masseduction sembra uno dei brani che Justin Timberlake regala alle sue protegé e Sugarboy assomiglia tanto ad uno di quei divertenti cut-up che un tempo finivano nelle b-side dei pezzi buoni. Niente che offenda le orecchie, intendiamoci, ma non cè traccia dei brani memorabili che lartista ci aveva promesso.
E se è vero che il precedente St. Vincent (l'album) aveva un impatto meno immediato, in esso anche i momenti più deboli avevano ragione di esistere in virtù di un trattamento originale che qui, programmaticamente, è stato semplificato, addolcito delle sue asperità, uniformato a certi standard; ma quando si sceglie di spostare il baricentro delle composizioni verso la scrittura, attribuendo più importanza alla canzone (in senso pop), la scrittura deve essere pronta a reggere una parte maggiore del peso tale da compensare l'alleggerimento delle sovrastrutture arty, ed è forse questo quel che manca alla Clark, quella personalità radio-friendly che è costretta a saccheggiare altrove. Quando il processo compositivo segue il suo iter costruttivo abituale infatti i risultati notevoli non mancano, e ci riferiamo a Pills e Savior, dove seppur in maniera più stilizzata troviamo il suo classico strumentale fratturato in raddoppio della voce, alleggerito da alcune aperture più liriche che ampliano il respiro del pezzo conferendogli equilibrio.
Viceversa anche spunti discreti, come Fear The Future o latmosferica ballad finale Smoking Section, soffrono del morbo dellincompiutezza, suonando, senza uno sviluppo adeguato, come idee neutre e in fondo banali, nulla più che abbellite qui e là per essere effettistiche più che efficaci. Sarà anche, come qualcuno ha giustamente osservato, il disco più personale di St. Vincent, per i temi trattati e lapproccio meno mediato/meditato, però brani come Hang On me, Young Lover e Slow Disco puzzano molto, forse troppo, di preconfezionato, allinseguimento di un songwriting electro-chamber-noise tanto in voga ultimamente presso il pubblico indie americano (avete presente il celebratissimo album di Mitski dello scorso anno? perché è a quello che ci riferiamo). Ecco, un genio come la Clark, peraltro già indie nel dna, ed è amata dal pubblico, e coccolata dalla critica mondiale per meriti propri da almeno un decennio, ha davvero bisogno di fare l'epigona (scadente) di qualcun'altro?
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